Andiamoci piano con le analisi sulle regionali

La destra sbandiera le vittorie nelle Marche e in Calabria, ma devono ancora votare quattro regioni: cosa ci si aspetta

Giorgia Meloni saluta la folla al termine di un comizio per Roberto Occhiuto a Lamezia Terme, il 30 settembre 2025 (Filippo Attili/LaPresse)
Giorgia Meloni saluta la folla al termine di un comizio per Roberto Occhiuto a Lamezia Terme, il 30 settembre 2025 (Filippo Attili/LaPresse)
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I risultati delle recenti elezioni regionali nelle Marche e in Calabria hanno alimentato grossi dibattiti e accalorate polemiche. Dal loro esito si è cercato di comprendere, in modo più o meno efficace, lo stato di salute dei partiti e delle coalizioni a livello nazionale, e in certi casi le analisi sul voto a Fermo, a Pesaro, a Cosenza o a Crotone si sono mescolate con quelle sulla mobilitazione delle ultime settimane in favore della Palestina, con l’obiettivo di capire se quelle manifestazioni avessero delle ricadute concrete e immediate sull’elettorato.

C’è anche chi ha definito questo turno di elezioni regionali – con 7 regioni al voto, tra fine settembre e fine novembre – come una specie di “mid-term” per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con riferimento alle elezioni di metà mandato che si svolgono negli Stati Uniti due anni dopo l’elezione del presidente: un’occasione, insomma, per verificare la tenuta dei consensi del governo in vista della seconda fase della legislatura.

Per ora però si è svolta solo la prima parte di questo lungo autunno elettorale. Dei poco meno di 19 milioni di elettori potenziali, finora le elezioni hanno riguardato poco più di 3 milioni di persone: 1,8 milioni in Calabria, 1,3 milioni delle Marche, e poco più di 100mila persone in Valle d’Aosta, dove peraltro si vota secondo regole molto locali. Se insomma fosse vero che queste elezioni regionali d’autunno vanno prese come un test nazionale, bisognerebbe almeno attendere che si voti in Toscana domenica e lunedì prossimi (il 12 e 13 ottobre, con 3 milioni di aventi diritto), e poi soprattutto il 23 e il 24 novembre, quando si voterà contemporaneamente in Puglia (3,5 milioni di aventi diritto), Campania (4,9 milioni) e Veneto (4,1 milioni).

– Leggi anche: Le elezioni in Calabria tolgono almeno due convinzioni al centrosinistra

È molto probabile, se non scontato, che molti dei giudizi negativi e disfattisti sul centrosinistra verranno ribaltati o comunque fortemente attenuati di qui a fine novembre: perché finora si è votato in due regioni dove governava la destra e dove il centrosinistra partiva in svantaggio (Marche) o senza alcuna concreta speranza di successo (Calabria). Tra le quattro regioni che ancora devono votare, invece, Toscana, Puglia e Campania sono quasi certamente destinate a restare al centrosinistra, mentre il Veneto continuerà con ogni probabilità a essere governato dalla destra.

Alla fine di tutto, insomma, salvo esiti al momento improbabili, un po’ dovunque verranno confermate le previsioni: con la destra che rivince dove governava e dove era avvantaggiata, e il centrosinistra lo stesso.

In effetti le prime a non fidarsi tanto dei pronostici, nei mesi scorsi, erano state proprio le due principali leader della politica italiana: Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Proprio in virtù dei loro timori, o delle loro speranze, si sono alimentate aspettative e polemiche smisurate sulle elezioni d’autunno.

A decidere che le elezioni dovessero avvenire lungo un arco di due mesi è stato infatti il governo. La presidente del Consiglio aveva accantonato definitivamente l’ipotesi di convocare tra maggio e giugno un cosiddetto election day, cioè di concentrare in un unico fine settimana tutte le regionali. I motivi erano due: il primo era evitare un appuntamento unico che avrebbe assunto grande valore politico, e che le opposizioni avrebbero potuto sfruttare per invocare una mobilitazione generalizzata contro il governo nazionale.

Meloni lo vedeva come un rischio, sapendo che già in passato il voto in uno stesso giorno in più regioni aveva creato problemi ai governi. In un caso le regionali indussero addirittura il capo del governo a dimettersi: Massimo D’Alema nell’aprile del 2000.

L’altro motivo riguardava invece la coalizione di destra. Meloni temeva che, dovendo negoziare con gli alleati la scelta dei candidati presidenti tutti insieme, avrebbe dovuto fare molte concessioni a Matteo Salvini e Antonio Tajani: tradizionalmente il partito principale di una coalizione, tanto più se esprime anche la presidente del Consiglio, fa agli altri partiti più concessioni di quelle che gli spetterebbero sulla base dei semplici rapporti di forza, proprio perché l’interesse maggiore del leader della coalizione è preservare la stabilità del governo.

Meloni ha invece cercato di rinviare il più possibile la decisione sui candidati, in modo da dividere le varie nomine in diverse trattative successive, ed evitare di subire ricatti politici o pressioni da parte di Salvini e Tajani. Tuttora la destra non ha ancora indicato i propri candidati per Veneto, Puglia e Campania.

Elly Schlein al comizio finale per le regionali in Calabria, con Pier Luigi Bersani e il candidato presidente Pasquale Tridico, a Crotone, il 30 settembre 2025 (Giuseppe Pipita/ANSA)

Dall’altro lato, a fomentare il dibattito sulle regionali c’erano le speranze di Schlein. La segretaria del PD è stata a lungo convinta di poter sfruttare questo turno di elezioni regionali per mettere in difficoltà il governo e rafforzare la propria leadership interna al partito. Fino a maggio o giugno scorso, infatti, il centrosinistra aveva buoni segnali sulla possibilità di vincere nelle Marche: sarebbe significato sottrarre una terza regione alla destra, dopo Umbria e Sardegna, e battere un presidente uscente di Fratelli d’Italia molto vicino a Meloni, come Francesco Acquaroli.

Vincere nelle Marche avrebbe di fatto decretato una vittoria del PD a queste regionali. In primavera i parlamentari del partito parlavano spesso di un probabile “4 a 1”, col centrosinistra che avrebbe vinto in tutte le regioni tranne che in Veneto (in quel periodo non si sapeva ancora che ci sarebbero state elezioni in Calabria, e la Valle d’Aosta, per l’importanza delle questioni locali, non viene mai presa in considerazione nelle faccende nazionali).

Poi però nel giro di una settimana sono successe due cose che hanno ridimensionato le convinzioni di Schlein. Il 22 luglio si è scoperto che l’europarlamentare del PD Matteo Ricci, candidato presidente nelle Marche, era indagato in un’inchiesta giudiziaria, e questo ha segnato l’inizio del suo calo di consensi, contribuendo a rendere assai improbabile la sua vittoria.

Pochi giorni dopo, alla lista delle 5 regioni al voto (più la Valle d’Aosta) se ne è inaspettatamente aggiunta un’altra: il presidente della Calabria Roberto Occhiuto, di Forza Italia, dopo aver scoperto di essere indagato per corruzione si è dimesso e ha annunciato che si sarebbe ricandidato, convocando un turno di elezioni in tempi rapidissimi. Questo ha ridefinito ulteriormente le previsioni: perché era abbastanza scontato che Occhiuto venisse riconfermato, com’è in effetti avvenuto.

A quel punto il grande valore potenziale di questo turno di regionali si è assai ridotto, nel senso che nessuna regione è parsa davvero “contendibile”, cioè che potesse cambiare parte politica. Un’eventuale vittoria della destra in Puglia o Campania, o un inverosimile successo del centrosinistra in Veneto, darebbero un significato tutto diverso a queste regionali d’autunno, ma sarebbe un esito clamoroso. Se invece tutto andrà come sembra, le conseguenze concrete sulla politica nazionale di queste regionali saranno piuttosto limitate.

Da questa sorta di stallo ha da guadagnarci più Meloni di Schlein: per una presidente del Consiglio il fatto che non ci siano scombussolamenti politici è sempre una buona notizia.

– Leggi anche: Un po’ di dati e grafici per capire meglio il risultato nelle Marche