Il ministero dell’Interno continua a fare una cosa che non potrebbe fare
È stato condannato diverse volte per non aver risposto a migranti che chiedevano accoglienza, costretti spesso a stare in strada

La settimana scorsa il Tribunale amministrativo regionale (TAR) del Piemonte ha condannato il ministero dell’Interno e la prefettura di Torino per non aver mai risposto a un migrante che chiedeva accoglienza in attesa della valutazione della sua richiesta d’asilo, e che nel frattempo era finito a vivere per strada.
Non è il primo caso di questo tipo: negli ultimi anni ci sono state condanne di altri TAR contro le prefetture e il ministero, tutte per casi simili. La legge italiana prevede che gli uffici pubblici rispondano alle richieste sulle questioni di loro competenza entro trenta giorni: varie sentenze hanno stabilito che questo principio vale anche per i migranti che chiedono accoglienza. Eppure continuano a esserci situazioni di questo genere, ed è verosimile credere che quelle che diventano note per via dei ricorsi siano solo una parte del totale.
Nel caso specifico, il TAR ha dichiarato illegittimo il comportamento della prefettura di Torino e del ministero dell’Interno (a cui tutte le prefetture fanno capo), li ha condannati al pagamento di 1.500 euro di spese legali e ha ordinato di dare una risposta entro 30 giorni all’uomo che aveva presentato il ricorso.
L’uomo è un 24enne con una patologia renale originario della Repubblica democratica del Congo, un paese in cui vari gruppi armati compiono regolarmente stragi di civili (la sua identità non è nota). Come molte altre persone nella sua condizione era arrivato in Italia via mare a dicembre del 2024 e aveva presentato una richiesta d’asilo. Significa cha aveva chiesto di ricevere una forma di protezione internazionale per poter restare in Italia in quanto rifugiato, una condizione riconosciuta a chi ha lasciato il proprio paese per rischi di persecuzioni legate alla sua appartenenza etnica, alla religione, alla provenienza sociale o alle sue opinioni politiche.
Lo status di rifugiato (che è una definizione giuridica precisa) viene riconosciuto a una minoranza di migranti che ne fanno richiesta, ma praticamente chiunque arriva in Italia via mare lo chiede: quando si fa richiesta si riceve un permesso di soggiorno temporaneo, ed è la maniera più immediata per poter restare legalmente nel luogo in cui si arriva, in attesa della valutazione della domanda.
I tempi per la valutazione della richiesta d’asilo sono lunghi: possono volerci molti mesi (nel caso di ricorsi contro un esito negativo anche anni). Nel frattempo chi ha presentato la richiesta e non ha altri mezzi per mantenersi ha diritto a essere inserito nel sistema di accoglienza della città in cui ha fatto richiesta. Lo stabilisce una direttiva europea recepita dall’Italia nel 2015 che dice che l’accoglienza va garantita a chi ne ha diritto «dal momento della manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale». Questo tipo di accoglienza avviene in posti come i CAS, i centri di accoglienza straordinaria, ed è gestito sempre dalle prefetture.
Nel caso che ha portato alla sentenza del TAR del Piemonte, il migrante 24enne aveva presentato richiesta d’asilo dopo il suo arrivo in Italia e a febbraio del 2025 aveva chiesto alla prefettura di essere ospitato in un centro di accoglienza locale, senza mai ricevere risposta. L’avvocato che ha seguito il suo caso, Giacomo Venesia, dice che la prefettura gli aveva risposto a voce che non c’erano posti disponibili, e che avrebbe dovuto aspettare che si liberassero.
Il 24enne nel frattempo viveva e dormiva per strada e si procurava dei pasti alla mensa dei poveri. L’uomo scoprì poi proprio mentre era a Torino di avere una patologia renale, andando in ospedale per via di alcuni dolori forti in corrispondenza del rene sinistro, dice Venesia. Gli fu consigliato di rivolgersi a un avvocato dagli insegnanti di lingua italiana dei CPIA di Torino (i Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, che fanno corsi gratuiti di lingua per i richiedenti asilo).
Venesia ha conosciuto l’uomo ad aprile del 2025. Ha inviato alla prefettura un sollecito sulla richiesta di accoglienza, e una volta trascorsi i 30 giorni previsti dalla legge per ricevere una risposta ha presentato un ricorso al TAR. Nel ricorso Venesia e il 24enne migrante suo assistito avevano chiesto che la prefettura venisse obbligata a rispondere all’uomo, che chiedeva accoglienza entro 30 giorni.
Il TAR ha accolto il ricorso e ha dichiarato illegittima la mancata risposta della prefettura al migrante che faceva richiesta di accoglienza. Dal punto di vista tecnico il TAR ha applicato la legge che obbliga la pubblica amministrazione a rispondere alle richieste entro 30 giorni anche in questo caso (il termine tecnico della pratica illecita della mancata risposta è “silenzio-inadempimento”).
La sentenza è stata pubblicata il 2 ottobre: significa che la prefettura di Torino ha tempo fino al 1° novembre per rispondere al migrante congolese sul suo diritto di ricevere accoglienza. Per il tipo di condizioni in cui si trova, Venesia ritiene che sia scontato che la prefettura gli dica che ha effettivamente diritto a essere collocato in un centro di accoglienza, e quindi che debba poi occuparsi di collocarcelo.
Negli ultimi anni ci sono stati vari casi come quello di Torino: ad aprile di quest’anno il TAR dell’Emilia-Romagna ha condannato la prefettura di Parma e il ministero dell’Interno per lo stesso motivo. Ci sono stati almeno due altri casi di condanne simili: uno nel 2020, da parte del TAR della Lombardia, e uno del 2025, del TAR del Veneto. Calogero Musso, l’avvocato che ha seguito il caso di Parma, racconta che un migrante che assisteva – anche lui finito a vivere per strada perché la prefettura non gli rispondeva sulla richiesta di accoglienza – ricevette una multa per aver allestito una tenda per dormire per strada: fece ricorso, e la multa venne annullata.
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