Cos’è questa storia dei dazi sulla pasta italiana

Potrebbero entrare in vigore al 107 per cento per un’indagine antidumping cominciata prima di Trump, ma non è ancora il caso di allarmarsi

(Getty Images)
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Su diversi giornali è stata data la notizia che gli Stati Uniti starebbero pensando di imporre dazi del 107 per cento (quindi altissimi) sulla pasta italiana da gennaio del 2026. Da mesi sui dazi c’è una certa imprevedibilità, principalmente a causa delle politiche confuse del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che li ha più volte annunciati, posticipati, sospesi e reintrodotti, con l’obiettivo di ottenere quello che vuole dalle negoziazioni internazionali.

I possibili dazi sulla pasta italiana sono però legati a un’altra storia che ha poco a che vedere con le politiche di Trump, e soprattutto non è ancora detto che effettivamente saranno introdotti. Ci spieghiamo.

Sollecitato da alcuni produttori di pasta statunitensi, il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha avviato lo scorso anno un’indagine su presunte pratiche di dumping da parte di alcuni produttori di pasta italiani. Il dumping è una pratica commerciale scorretta con cui i produttori vendono la loro merce a un prezzo ribassato e sotto il costo di produzione, con l’obiettivo di sbaragliare la concorrenza. Per correggere il dumping di solito gli stati decidono di applicare i cosiddetti “dazi antidumping”, cioè una tassa all’importazione stabilita per tentare di riportare il prezzo finale di vendita a un livello considerato più equo. Un esempio sono quelli introdotti dall’Unione Europea sull’importazione di auto elettriche cinesi.

Negli Stati Uniti queste indagini sono piuttosto comuni, dato che il dipartimento ogni anno permette alle aziende di fare segnalazioni su sospetti di dumping, che poi analizza. L’indagine sui produttori di pasta italiani fu avviata nell’agosto del 2024, quindi prima che Trump fosse rieletto presidente. Riguardavano le vendite da luglio 2023 a luglio 2024 di 19 marchi, tra cui anche alcuni molto noti come Barilla, Garofalo, Rummo e La Molisana. Lo stesso tipo di indagine è stata avviata anche quest’anno, per gli stessi marchi e per le loro vendite dei dodici mesi successivi (da luglio 2024 a luglio 2025), e si concluderà l’anno prossimo.

Per il procedimento iniziato lo scorso anno il dipartimento aveva inviato una richiesta vincolante di chiarimento solo a Garofalo e a La Molisana, che sono stati sottoposti a una revisione completa sui dati di vendita e sui loro costi, essendo anche i marchi più venduti negli Stati Uniti dopo Barilla (che però ha stabilimenti nel paese che producono per il mercato locale, quindi il dumping è meno probabile). In un rapporto preliminare di inizio settembre, il dipartimento ha concluso che i due marchi non sono stati collaborativi, e che le informazioni fornite non sono sufficienti.

Il rapporto conclude che i due marchi abbiano applicato un margine di dumping del 91,74 per cento, e che questo valore sarebbe quindi il dazio antidumping per compensare il danno: significa, semplificando, che avrebbero venduto circa alla metà del prezzo equo di mercato, con l’obiettivo di mettere in difficoltà i concorrenti.

In aggiunta al 15 per cento dei dazi che da luglio gli Stati Uniti applicano a tutte le merci europee, e quindi anche italiane, significa un dazio complessivo di quasi il 107 per cento sul valore della pasta di questi marchi che viene importata (il 106,74 per cento, per la precisione). Il dipartimento del Commercio ha ipotizzato che questo sia anche il margine applicato dagli altri marchi del settore, che però saranno sottoposti a dazi diversi, probabilmente più bassi: dei 19 citati inizialmente, ne ha esclusi solo 5.

Un dazio del 107 per cento significa che i prodotti di questi marchi – e quindi non tutta la pasta italiana, anche se i marchi sono tra i più grandi esportatori – arriveranno sul mercato statunitense con un prezzo più che raddoppiato: in sostanza per importarli bisognerà pagare un dazio pari al prezzo del prodotto.

È bene ricordare che la valutazione è ancora preliminare, e che dovrà essere confermata in queste settimane. Non è detto quindi che questi dazi entrino in vigore, anche se i precedenti degli scorsi mesi non sono confortanti. È vero che questa è un’indagine tecnica, però è anche vero che il dipartimento del Commercio fa parte dell’amministrazione Trump, ed era peraltro quello che ad aprile aveva elaborato il contestato e infondato metodo di calcolo sui dazi annunciati dal presidente.

Le associazioni di categoria hanno iniziato a lamentarsene, e i ministeri italiani degli Esteri e dell’Agricoltura se ne stanno occupando già da inizio settembre, quando la valutazione preliminare fu pubblicata. Il ministero degli Esteri ha fatto sapere che sta lavorando con la Commissione Europea per fare pressione sul governo statunitense: la politica doganale è infatti materia esclusiva europea. Anche questo complica le cose: i negoziati sui dazi dei mesi scorsi, condotti proprio dalla Commissione, sono stati fallimentari, visto che non è riuscita a evitare che Trump imponesse i dazi del 15 per cento sulle merci europee e ha dovuto oltretutto fare molte concessioni e promesse.

Sebbene il settore agroalimentare italiano sia sempre molto menzionato quando si parla di dazi, in realtà non è quello con cui l’Italia è più esposta al commercio con gli Stati Uniti. Nel 2024 l’Italia ha esportato negli Stati Uniti quasi 8 miliardi di euro tra prodotti alimentari, alcolici, e prodotti agricoli, e ne ha importati per poco più di un miliardo di euro. Sono meno del 10 per cento di tutte le esportazioni italiane negli Stati Uniti, e il 5 per cento delle importazioni. Valgono solo un terzo delle esportazioni della meccanica, per esempio, e poco più della metà dei prodotti chimici e farmaceutici.

Il problema dei possibili dazi su alcuni produttori di pasta quindi non è tanto a livello macroeconomico, ossia per il complesso dell’economia italiana, ma a livello microeconomico, cioè per il settore della pasta e le sue aziende. Secondo dati del Sole 24 Ore il mercato statunitense per i pastai italiani vale complessivamente 700 milioni di euro l’anno, su vendite complessive di 8,7 miliardi.