In Italia l’avocado è diventato un affare da investimenti milionari
È facile da coltivare, i terreni rendono molto e si rivendono a un sacco di soldi: e soprattutto, ne mangiamo sempre di più
di Francesco Gaeta

Nella vallata del fiume Tusa, a metà della costa siciliana tra Messina e Palermo, i contadini che coltivano i campi di avocado si muovono in quad. Si spostano veloci e quando arrivano alla testa di ciascun filare avvicinano un tablet a una colonnina verticale: controllano l’umidità del terreno e la quantità di acqua che sta passando nei tubi sotterranei. A ogni pianta servono 10 litri al giorno, che sono tanti. L’azienda che ha sede in questa zona, la Halaesa, ha 25mila piante di avocado. I controlli servono a sprecare meno acqua possibile, ma sono necessari tecnologia e investimenti. Nei 40 ettari (sono 0,4 chilometri quadrati) della Halaesa sono stati spesi oltre 400mila euro tra vasche di raccolta, tubazioni e sensori, una cifra elevata per un settore come l’agricoltura. Ma a quanto pare ne vale la pena.
Il motivo è che l’avocado è una coltura molto redditizia, se confrontata con altre coltivazioni tradizionali. In una stagione senza intoppi climatici, un ettaro (10mila metri quadrati) di limoni in Sicilia rende in media 17mila euro all’anno, uno di avocado più del doppio. Per questo acquistare un limoneto e ripiantarlo ad avocado significa guadagnare molti soldi, anche vendendolo: oggi un terreno di limoni si compra al massimo a 80mila euro all’ettaro e una volta che è stato convertito ad avocado si rivende anche a 180mila all’ettaro. Questo spiega perché, in Sicilia e non solo, i campi di avocado si stanno allargando, sostituendo agrumeti, uliveti e orti. Spiega anche perché questa coltura sta attirando investimenti da aziende settentrionali, da finanziatori privati e perfino da fondi di investimento che ci vedono la possibilità di ritorni economici elevati.
Il caso Halaesa è piuttosto emblematico di questa tendenza. È stata fondata appena tre anni fa e raccoglierà i primi avocado l’anno prossimo, eppure ha già ottenuto 8 milioni di euro da investitori privati in due “round” di finanziamento (come viene chiamata in gergo ogni fase in cui si raccolgono soldi). È una logica da startup poco usuale nell’agricoltura, perché si basa sulla promessa di un guadagno elevato ma non certo. Di solito in Italia nell’agricoltura si tende a fare il contrario: ci si accontenta anche di un piccolo margine di guadagno, purché si abbia quasi la certezza di ottenerlo. Il piano economico di Halaesa promette rendimenti a doppia cifra ogni anno a chi oggi entra nella società e prevede di vendere la propria quota tra 7 anni, che sono tempi di investimento e percentuali di guadagno quasi da private equity.
Con i soldi che ha ottenuto dai finanziamenti, Halaesa ha comprato attrezzature e piantagioni per circa 150 ettari, che si prevede diventino 300 nel 2026, e poi 500 entro il 2030. L’amministratore delegato Francesco Mastrandrea ha 40 anni, è laureato non in agraria ma in economia, e dice che fin da giovane voleva «fare l’agricoltore ma anche vivere bene».

Una pianta di avocado nella piantagione della Halaesa, a Tusa (Francesco Gaeta/il Post)
Racconta che ha scelto i terreni «uno per uno, parlando di persona con i proprietari, perché in Italia non ci sono molti mediatori immobiliari di terreni agricoli di piccola estensione». Non è stato un lavoro facile. In una regione in cui le temperature sono più elevate di un tempo, questi campi devono avere falde d’acqua e pozzi autorizzati all’interno delle aziende per essere autosufficienti dal punto di vista idrico. Devono anche estendersi in zone con poco vento, «che è il vero problema di questa pianta in buona parte delle zone di mare siciliane». L’avocado ha però una caratteristica molto interessante dal punto di vista commerciale: il frutto maturo può restare anche fino a tre mesi appeso al ramo. Questo rende possibile gestire la raccolta assecondando i picchi di domanda della grande distribuzione.
Negli ultimi anni ci sono state diverse aziende che hanno fatto scorta di terra nel sud Italia da destinare all’avocado. Tra le prime Sicilia Avocado, che è attiva dal 2013 e oggi coltiva circa 100 ettari tra Catania e Siracusa. Persea, fondata nel 2021, sta impiantando tra Sardegna e Calabria 500 ettari e conta di arrivare ai primi raccolti a fine 2025. Accanto a loro ci sono progetti di filiera, che cioè coinvolgono coltivatori e distributori, come nel caso di Piante Faro che con Orsero, azienda di produzione e distribuzione di frutta quotata in Borsa, ha avviato 50 ettari ai piedi dell’Etna.
E c’è interesse a investire in queste società: il fondo Idea Agro per esempio ha avviato con un’azienda siciliana un progetto da 100 ettari a Carlentini, provincia di Siracusa, confermando che l’avocado è un bene su cui puntano anche i fondi privati di investimento.
La coltivazione su larga scala della frutta tropicale e dell’avocado in particolare è in realtà una tendenza europea, e l’Italia ci arriva in ritardo rispetto ad altri paesi per un motivo preciso: la proprietà agricola è più frammentata, circa 11 ettari in media, meno della metà rispetto alla Spagna che è il più diretto concorrente. Un’estensione ridotta dei terreni significa non potere fare economie di scala per ammortizzare gli investimenti necessari. È un problema strutturale, che riguarda soprattutto il Sud ed è comune a molte coltivazioni.
A spingere gli investitori è comunque il fatto che in Italia di questo frutto se ne mangia sempre di più. Circa dieci anni fa erano 100 grammi a testa all’anno, oggi sono 800. È una crescita senza flessioni: secondo i dati provenienti dalla grande distribuzione, nei primi sei mesi di quest’anno le vendite sono cresciute del 28 per cento. In questo ha un ruolo anche la diffusione del guacamole e l’uso dell’avocado nel sushi, dove è diventato un ingrediente comune. Da prodotto tropicale stagionale l’avocado è diventato una moda alimentare, molto legata a virtù nutritive – la presenza di grassi insaturi, vitamine, antiossidanti – che lo hanno reso appetibile a sportivi e in generale a chi segue diete salutiste.
L’offerta italiana copre però solo il 5 per cento della domanda. L’Italia importa il resto da Spagna e Portogallo, ma anche da più lontano, cioè dal Sudafrica e dall’America Latina. Nelle piantagioni il frutto viene raccolto ancora acerbo e trasportato in container via nave, in un viaggio che può durare anche 40 giorni. Viene tenuto in celle con l’etilene, un gas che dovrebbe omogeneizzarne la maturazione.

La piantagione della Halaesa, a Tusa (Francesco Gaeta/il Post)
A volte non è sufficiente, come sa chi è abituato a comprare avocado al supermercato e si trova spesso a scegliere tra frutti ancora acerbi o già fin troppo molli. Come spiega Raffaele Spreafico, che guida un’azienda di importazione e confezionamento di frutta tra le più grandi in Italia, «è un frutto molto delicato. Bisogna saperlo trattare anche nelle fasi successive alla coltivazione». Per questo la Spreafico ha avviato una “avocado Academy” che «fa formazione ai buyer, cioè le catene della grande distribuzione, sui modi per gestire il prodotto, le tecniche per ultimare la maturazione e per ridurre la percentuale di scarti».
Il fatto che la quota di avocado importato sia così alta offre ai nuovi produttori italiani un’opportunità. Lavorare su una filiera più corta permette di portare sui banconi un prodotto maturo al punto giusto e di qualità più elevata. Le conseguenze sui guadagni possono essere consistenti per tutta la filiera: un avocado prodotto in Sicilia può essere venduto al distributore a 4 euro al chilo, e il prezzo finale al cliente può arrivare anche a 13 o 14 euro al chilo, invece dei 6 euro (in media, per certe varietà il prezzo è più alto) a cui lo si trova oggi sul bancone della frutta.



