Per ora le case di comunità sono vecchi ambulatori con un nome diverso
Sono costate due miliardi di euro, ne sono state aperte 660 su oltre 1.600 e solo in 172 c'è almeno un medico

Negli ultimi due anni in Italia sono state inaugurate 660 case di comunità, ambulatori pubblici pensati per rafforzare la cosiddetta medicina territoriale, cioè con un ruolo intermedio tra gli ospedali e i medici di medicina generale. Ne mancano ancora poco più di mille per rispettare gli impegni presi nel PNRR, il piano di riforme e investimenti che le ha finanziate con 2 miliardi di euro. Al di là dei notevoli ritardi, le perplessità maggiori di questo piano riguardano i servizi offerti alle persone, che nonostante i tanti soldi spesi sono quasi sempre gli stessi già presenti nei vecchi ambulatori: il risultato è che per ora nella maggior parte dei casi le case di comunità non sono altro che i vecchi ambulatori con un nome diverso.
Delle case di comunità si iniziò a parlare durante la pandemia da coronavirus, quando ci si accorse di quanto la sanità territoriale – la rete formata da medici, guardie mediche e ambulatori locali – fosse stata trascurata. Soprattutto nella cosiddetta prima ondata della pandemia moltissime persone preferirono chiamare direttamente il 118 oppure presentarsi al pronto soccorso. Andarono molto in affanno sia i medici di medicina generale (quelli chiamati anche medici di famiglia o di base) che gli ospedali.
Una delle gravi conseguenze di questa pressione eccessiva sugli ospedali fu che molte persone con malattie croniche non vennero seguite in modo adeguato e molte prestazioni essenziali vennero ritardate o bloccate.
Per risolvere questa lacuna strutturale il ministero della Salute propose di sfruttare l’occasione del PNRR per potenziare gli ambulatori pubblici, dove lavorano prevalentemente le guardie mediche. Nelle intenzioni del governo le persone dovrebbero rivolgersi alle case di comunità per avere un’assistenza medica immediata e per accedere a diversi servizi di diagnostica e prevenzione senza rivolgersi al pronto soccorso o agli ospedali.
Più concretamente, nelle case di comunità dovrebbero lavorare medici di medicina generale, infermieri e pediatri di libera scelta, specialisti, psicologi e assistenti sociali. In teoria dovrebbero esserci anche i centri unici di prenotazione di visite e ricoveri (i Cup) e i servizi per l’attivazione delle cure a casa e della telemedicina, nonché – anche se sono facoltativi – i vaccini e i programmi di screening.
“Dovrebbero”, appunto, perché nella maggior parte dei casi nelle case di comunità questi servizi non ci sono. «È stato creato prima il contenitore del contenuto», disse già nel 2023 Alessandro Dabbene, vicesegretario della Fimmg, la federazione italiana dei medici di medicina generale. Da allora le cose sono cambiate poco.
I dati diffusi in un report di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, confermano le critiche di molti medici ed esperti di sanità. Il report analizza gli obiettivi raggiunti allo scorso giugno. Da una ricognizione fatta con tutte le aziende sanitarie italiane emerge che delle 660 case di comunità aperte solo 46 forniscono tutti i servizi sanitari previsti, in solo 172 c’è almeno un medico nelle 12 ore di apertura e in 162 c’è un ambulatorio infermieristico.
Un altro problema riguarda la differenza tra le diverse regioni. La maggior parte è stata aperta al Nord, mentre al Centro e al Sud ci sono molti ritardi. In Abruzzo, Basilicata, Campania e nella provincia autonoma di Bolzano non sono state ancora aperte case di comunità. In Calabria ne sono state inaugurate 2 sulle 63 previste, in Molise 2 su 13, in Puglia una su 123, in Sicilia 9 su 161. Va leggermente meglio in Sardegna dove sono 27 su 80.
In Emilia-Romagna, Toscana e Piemonte i dati sono buoni perché già da anni queste tre regioni hanno scelto un modello di assistenza primaria simile alle case di comunità. È simile perfino nel nome, visto che in queste tre regioni c’erano le “case della salute”.
Le case di comunità già aperte non sono molto diverse dai vecchi ambulatori perché finora gli investimenti sul personale sono stati limitati. Il problema maggiore riguarda i medici di medicina generale, che nelle intenzioni del governo avrebbero dovuto trasferirsi per primi nelle case di comunità. «Non possiamo pensare di avviare la medicina territoriale senza il supporto e l’ausilio dei medici di medicina generale. Dovranno sicuramente passare una parte del loro orario all’interno delle case di comunità», ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci. Finora però pochi medici hanno accettato e le aziende sanitarie non hanno molti mezzi per incentivarli.
I medici di medicina generale non sono dipendenti del servizio sanitario nazionale, ma liberi professionisti convenzionati con le aziende sanitarie. Da anni si parla di una riforma generale della professione per far diventare i medici dipendenti del servizio sanitario, ma i sindacati e le associazioni di categoria sono contrarie, e le aziende sanitarie stanno facendo molta fatica a trovare medici disponibili. La mancanza di personale da inserire nelle case di comunità riguarda anche altri tipi di servizi come i prelievi, le vaccinazioni, le cure domiciliari e le prenotazioni, fino ai servizi sociali.



