Come le aziende energetiche fanno enormi profitti a danno delle regioni italiane
È una storia di concessioni vantaggiose per sfruttare un bene pubblico: come per le spiagge, ma più grossa e meno nota
di Isaia Invernizzi

Da molti anni in Italia si discute di come governi di qualsiasi orientamento politico non riescano ad affrontare la grande questione delle concessioni balneari: un settore in cui la concorrenza non esiste e un bene pubblico – le spiagge – viene sfruttato con privilegi finora mai messi in discussione. C’è un’altra grande questione, forse anche più grave e tuttavia meno raccontata, che riguarda un altro tipo di concessione e un altro bene pubblico sfruttato senza concorrenza da decenni, in alcuni casi da oltre cento anni: l’uso dell’acqua nella produzione di energia.
Circa il 15 per cento di tutta l’energia elettrica prodotta in Italia dipende dall’acqua che muove le turbine delle centrali idroelettriche. Le aziende energetiche usano l’acqua per produrre energia in cambio di un canone (cioè soldi) pagato alla pubblica amministrazione, in particolare alle regioni. Il meccanismo è più o meno lo stesso che regola il settore dei balneari e anche i problemi sono identici, perché molte concessioni sono state firmate decenni fa e da allora non ci sono mai state gare. Il settore è chiuso, di fatto. Le numerose proroghe delle concessioni idroelettriche hanno permesso così alle aziende energetiche di incassare miliardi di euro a fronte di canoni minuscoli e investimenti già ampiamente recuperati.
Non è solo una storia di sfruttamento di un bene pubblico a condizioni molto vantaggiose, ma anche di richiami inascoltati dell’Unione Europea e di tentativi dell’attuale governo Meloni di non rispettare gli impegni già assunti. A questo si aggiungono la questione del prezzo dell’energia – altissimo in Italia – e centinaia di milioni di euro di canoni non pagati. C’è soprattutto, infine, il ruolo di aziende enormi come Enel, Edison, Iren e A2A, che spingono per il rinnovo delle concessioni, sostengono che la concorrenza sia già troppa e i canoni abbastanza alti; e che esercitano una cospicua influenza sulla politica che dovrebbe decidere cosa fare di queste concessioni.
Secondo i dati diffusi da Terna, l’operatore che si occupa della gestione delle reti per la trasmissione dell’energia elettrica, in Italia ci sono 4.935 tra piccole e grandi centrali idroelettriche. Le regioni che ne hanno di più sono Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige e Veneto. Nella sola Lombardia è concentrato quasi un terzo della potenza idroelettrica installata italiana.
Il settore venne regolamentato una prima volta nel 1933, una quarantina d’anni dopo la costruzione delle prime centrali. All’epoca lo Stato firmò concessioni di 60 anni, una durata lunga per dare la possibilità alle aziende di ammortizzare gli investimenti fatti per costruire centrali e dighe.
Il canone dovuto dalle aziende energetiche alle regioni è formato da una componente fissa, calcolata sulla potenza della centrale, e da una componente variabile, in sostanza una percentuale sui ricavi dell’energia prodotta e venduta. In molte regioni le aziende devono anche fornire un po’ di energia gratis, ma siccome non è facile calcolare e trasferirne una quota precisa, nella maggior parte dei casi questa fornitura viene monetizzata, cioè pagata come se fosse un canone aggiuntivo.
Dal 1933 e fino a oggi le concessioni idroelettriche sono state prorogate otto volte. La prima volta nel 1982 con la legge 529, la seconda nel 1991. Una delle proroghe più importanti è la terza: fu concessa nel 1999 con il “decreto Bersani” che da una parte liberalizzava il settore dell’energia e dall’altra prorogava fino al 2010 le concessioni idroelettriche scadute o in scadenza, e fino al 2029 quelle assegnate a Enel. La legge finanziaria del 2006 introdusse una nuova proroga decennale spostando la scadenza dal 2010 al 2020, a fronte di canoni aggiuntivi minimi. Altri rinvii furono approvati nel 2010, nel 2018 con il “decreto semplificazioni”, nel 2020 con il “decreto Covid” e infine nel 2022.
Grazie a tutte queste proroghe in Italia la durata media delle concessioni è di circa 70 anni. Alcune hanno superato i cento anni. Il 17 per cento delle concessioni è scaduto nel 2023, l’1 per cento scadrà entro il 2028, il 68 per cento nel 2029 (sono per la maggior parte di Enel) e il 14 per cento negli anni successivi.
In questi anni la Commissione Europea ha avviato una procedura di infrazione per il mancato rispetto delle normative sulla concorrenza, e inviato tre lettere all’Italia per richiamarla agli obblighi. Solo nel 2021 il governo – c’era Mario Draghi alla presidenza del Consiglio – promise di fare le gare inserendole tra gli obiettivi del PNRR, il grande piano di riforme e investimenti finanziato coi fondi europei.
La legge sulla concorrenza impone di fare le gare seguendo criteri che favoriscano la competizione, equi e trasparenti, e adeguando i canoni. Visto che molte concessioni sono scadute o stanno per scadere, si potrebbe pensare che il governo e le regioni stiano organizzando le gare: invece non sta succedendo. Anzi, negli ultimi due anni il governo ha cercato in molti modi di non rispettare le promesse fatte all’Unione Europea, proponendo soluzioni più o meno creative per prorogare ulteriormente le concessioni senza fare le gare. Finora queste soluzioni non sono state accettate.

La centrale idroelettrica di Isola Serafini, sul fiume Po (AP Photo/Luca Bruno)
Le aziende energetiche temono le gare perché le centrali assicurano profitti giganteschi.
Soprattutto negli ultimi anni, dopo l’aumento del prezzo dell’energia seguito all’invasione russa in Ucraina, le aziende hanno prodotto energia elettrica a costi operativi bassi e l’hanno venduta a prezzi molto più alti. «Le rendite di queste aziende sono clamorose, alle regioni che ospitano le centrali arriva poco o nulla», dice Federico Testa, presidente di AGSM AIM, un’azienda energetica pubblica veneta. «Stimiamo che solo Enel e nel solo Veneto incassi ogni anno circa 800 milioni di euro tra concessioni idroelettriche e distribuzione elettrica». Testa ha invocato più volte le gare che consentirebbero di aprire il mercato ad aziende come la sua, finora escluse.
Durante un’audizione alla commissione Industria del Senato, il presidente dell’autorità garante della concorrenza e del mercato Roberto Rustichelli ha detto che i margini operativi lordi nel settore idroelettrico raggiungono valori nell’ordine del 50-80 per cento dei ricavi. Anche per questo motivo ha sollecitato la politica a fare al più presto le gare.
Le aziende energetiche, che non diffondono i dati relativi alle rendite delle concessioni, dicono invece che far funzionare le centrali sia molto costoso. Durante il forum di Cernobbio Salvatore Bernabei, direttore di Enel Green Power e Thermal Generation, ha detto che l’idroelettrico richiede capitali ingenti sia in fase di investimento iniziale che di mantenimento, con tempi lunghi per rientrare dagli investimenti.
Elettricità Futura, associazione che rappresenta il 70 per cento del mercato elettrico italiano, sostiene che l’energia idroelettrica sia per sua natura una tecnologia a prevalenza di costi alti e fissi e che richieda investimenti ingenti e costanti da parte degli operatori. «La maggior parte delle centrali è attiva da decenni, in qualche caso anche da più di 100 anni», scrive l’associazione in una nota. «È evidente come questi impianti siano stati nel tempo e sono tuttora costantemente oggetto di importantissimi aggiornamenti tecnologici e, spesso, rifacimenti strutturali completi, e sono dunque ben lungi dall’essere completamente ammortizzati».
L’associazione sostiene anche che i margini operativi lordi non tengano conto di voci di costo fondamentali come gli investimenti. Oltre al costo del capitale, della manutenzione e dei canoni che le aziende versano alle regioni, secondo Elettricità Futura bisogna considerare che la risorsa idrica è tutt’altro che costante, con periodi di forte siccità che impattano negativamente sui ricavi.
Finora solo la Lombardia è riuscita a organizzare due bandi di gara per tre concessioni, attualmente in fase di istruttoria. La preparazione delle gare è un passaggio importante perché permette di capire più nel dettaglio quanto una centrale sia profittevole, ovvero quanti soldi fa fare alle aziende. I ricavi aggiornati servono per assegnare un valore di mercato alla concessione e determinare la base d’asta. Un tecnico della regione Lombardia, che ha accettato di parlare al Post a patto di rimanere anonimo, dice che alla scoperta dei conti c’è stata una certa sorpresa: nessuno si aspettava ricavi così alti. Come mai con ricavi del genere la regione incassa così poco?, si sono chiesti molti funzionari.
Tutti i tentativi di organizzare le gare – in Lombardia così come nelle altre regioni – sono stati accompagnati da ricorsi presentati dalle aziende energetiche per ritardare il più possibile le procedure.
L’incertezza generale ha causato anche un altro problema: molte aziende la usano come pretesto per non pagare i canoni previsti dalle attuali concessioni, e quindi dovuti alle regioni a prescindere dalle future gare eventuali. Negli ultimi anni, poi, molti dei ritocchi fatti dalle regioni ai canoni di concessione – anche di quelli rimasti intatti da decenni – sono stati seguiti da ricorsi al tribunale amministrativo. Finora quasi tutti i ricorsi sono stati respinti. Secondo le aziende i canoni sono comunque tutt’altro che minuscoli: Elettricità Futura stima che in alcuni casi siano aumentati fino a sei volte.
Jacopo Scandella, consigliere regionale lombardo del Partito Democratico, ha ottenuto tutti i dati dei canoni non pagati alla Lombardia: le aziende devono in totale 207 milioni di euro tra componente fissa e monetizzazione dell’energia. Il Piemonte è arrivato a 100 milioni di euro, la sola provincia di Belluno a 30. «Si parla molto di balneari, di tassisti e altre corporazioni che tengono fermi interi settori, mentre delle concessioni idroelettriche si parla poco. Anzi, più che altro non se ne parla», dice Scandella. «Lo Stato dovrebbe incassare soldi quando ci sono rendite eccessive o tasse non pagate: in questo caso ci sono tutte e due queste condizioni. Qui abbiamo concessioni lunghissime, prorogate molte volte, con investimenti già ammortizzati anni fa che portano utili incredibili. Le centrali sono una miniera d’oro».
Negli anni Scandella è stato tra i pochi consiglieri regionali a parlare apertamente di questo tema, impopolare sia per la maggioranza che per l’opposizione, e non solo in Lombardia. Questa riluttanza dipende dal conflitto di interessi tra la politica e alcune tra le più grandi aziende energetiche: Enel è la storica ex compagnia statale dell’elettricità, ora privata ma partecipata dallo Stato al 23,6 per cento; i principali azionisti di A2A sono i comuni di Milano e di Brescia, entrambi amministrati dal centrosinistra; quelli di Iren sono i comuni di Genova, Torino, Reggio Emilia e Parma, tutti di centrosinistra.
Sempre lamentandosi del futuro incerto, le aziende hanno ridotto gli investimenti e gli interventi di manutenzione, essenziali visto che due terzi degli impianti sono stati costruiti prima degli anni Sessanta. La scarsa manutenzione riduce l’efficienza delle centrali, che producono meno energia rispetto al passato, e comporta rischi per la sicurezza. «Questa situazione di stallo è drammatica», dice Paolo Taglioli, direttore generale di Assoidroelettrica, un’associazione che rappresenta 427 aziende tra quelle concessionarie delle centrali. «Ci sono 15 miliardi di investimenti completamente bloccati perché non abbiamo certezze sul futuro».
Proprio come i balneari, anche i gestori delle centrali hanno segnalato al governo il rischio che eventuali gare per le concessioni vengano vinte da società straniere. Nel manifesto intitolato “Uniti per l’idroelettrico italiano”, scritto dall’associazione Elettricità Futura e firmato da sindacati, associazioni ambientaliste, associazioni di consumatori e dagli enti locali, si legge che l’arrivo della concorrenza straniera sarebbe un rischio per l’occupazione.
Tutte le aziende interpellate dal Post – Enel, A2A, Edison e Iren – hanno detto di non essere a prescindere contro le gare. Si oppongono per via della cosiddetta mancanza di reciprocità, cioè che in quasi tutti gli altri paesi europei le concessioni sono più lunghe rispetto all’Italia oppure con modalità di assegnazione che tutelano molto i concessionari uscenti. Gli italiani non possono competere all’estero, dicono, mentre gli stranieri possono competere in Italia.
Secondo Assoidroelettrica, l’Unione Europea deve rispettare il principio fondante di reciprocità, che viene garantito in altri settori minori e non nel caso dell’idroelettrico, importante per la tenuta economica del paese, delle industrie, e per l’occupazione delle famiglie. «La procedura di infrazione aperta a suo tempo dall’Unione Europea nei confronti dell’Italia è stata rimossa proprio perché manca reciprocità tra le condizioni imposte in Italia rispetto agli altri paesi», dice Paolo Taglioli.
Anche Assoidroelettrica sostiene di non essere contro le gare, ma fortemente contraria alla distorsione del mercato. Nel caso, le gare dovranno essere organizzate lo stesso giorno alla stessa ora e soprattutto in tutti i paesi europei. «Oggi però parlare di gare significa parlare del suicidio industriale del nostro paese», continua Taglioli. «Nel 2022 e nel 2023 abbiamo avuto la siccità più severa di sempre con aziende che sono andate in perdita, abbiamo avuto nell’ultimo quinquennio fluttuazioni del prezzo dell’energia come mai prima nella storia e quindi risulta impossibile ipotizzare di fare un reale piano finanziario che possa permettere di partecipare con un giusto approccio ad una eventuale gara. Per questo motivo se oggi si facessero le gare potrebbero partecipare solo colossi internazionali, offrendo cifre fuori mercato e dettando il prezzo dell’energia».
Taglioli sostiene inoltre che in Italia le regioni abbiano canoni molto più alti rispetto ad altri paesi europei, fino a 25 euro al megawattora, una cifra che l’associazione definisce esagerata. Secondo Assoidroelettrica, l’impatto dei canoni ha forti ripercussioni sul prezzo dell’energia, quindi sulle famiglie.
Gli altri Stati hanno ottenuto più flessibilità dalla Commissione Europea grazie a impegni presi durante le trattative, mentre l’approccio dell’Italia è stato molto diverso: i governi hanno continuato a prorogare le concessioni accontentando le aziende, senza discutere nuove condizioni con la Commissione. Esperti ed economisti che sollecitano le gare dicono inoltre che all’estero la scelta di non aprire troppo alla concorrenza garantisce comunque investimenti e un controllo dei prezzi, mentre in Italia sarebbe insomma solo un favore ai concessionari uscenti.
Le grandi aziende invocano il modello francese. Alla fine di agosto la Francia si è accordata con la Commissione Europea per passare da un sistema di concessioni a un regime di autorizzazioni, evitando le gare. I concessionari uscenti, su tutti la società statale EDF, potranno così mantenere la gestione degli impianti a condizione che facciano investimenti significativi per ammodernare le infrastrutture e aumentare la produzione di energia. Questo modello non esclude del tutto la concorrenza: l’accordo stabilisce che una parte della capacità idroelettrica, circa 6 GW, sarà resa disponibile attraverso aste. Questa parziale apertura al mercato è servita a convincere la Commissione Europea.
«Come accade in Francia, la difesa degli interessi nazionali deve prevalere su una liberalizzazione estrema senza controllo. È stato trovato in Francia un compromesso che tutela sia i produttori e la sicurezza che i consumatori», dice Luca Dal Fabbro, presidente di Iren.

La diga di una centrale a Merano, a Bolzano (EyesWideOpen/Getty Images)
Una soluzione proposta dal governo per venire incontro ai concessionari è stata chiamata “quarta via”, simile alla soluzione francese: consiste in una trattativa tra le regioni e le aziende energetiche per riassegnare le concessioni senza una gara, a fronte di un aumento dei canoni e di un preciso piano di investimenti. Finora questa ipotesi è stata esclusa dall’Unione Europea perché non rispetterebbe le promesse fatte dall’Italia per avere i soldi del PNRR.
La “quarta via” è stata scritta con il contributo della regione Lombardia, che la utilizzerebbe volentieri per evitare contenziosi. «Noi applichiamo le leggi: se la “quarta via” diventerà legge la valuteremo seriamente, anche solo perché abbiamo contribuito a scriverla», ha commentato Massimo Sertori, assessore regionale lombardo all’Utilizzo della risorsa idrica. «Noi dal 2018 abbiamo già alzato i canoni, ma è ovvio che le gare creerebbero un clima di concorrenza e stimolerebbero investimenti e un rialzo dei canoni. L’importante è adeguarli ai valori di mercato, e questo si può fare comunque anche senza le gare».
Le aziende hanno promesso di investire subito 15 miliardi di euro per fare pressione al governo e ottenere così la “quarta via”. Secondo le aziende e le associazioni che le rappresentano, invece, 15 miliardi è la stima del potenziale di investimenti pronti a partire se venissero superate le incertezze determinate dall’attuale assetto normativo, che ha già mostrato i suoi limiti, ma non un modo per fare pressione.
Secondo un’analisi degli economisti ed esperti di concorrenza e diritto costituzionale Serena Sileoni e Carlo Stagnaro, tuttavia, se si facessero le gare si potrebbero ottenere investimenti molto più consistenti di 15 miliardi di euro. In uno studio intitolato “Gare idroelettriche: perché sì, perché ora” pubblicato dall’istituto Bruno Leoni, Sileoni e Stagnaro hanno stimato due scenari di investimento: il primo è sulla base d’asta fissata dalla Lombardia per le tre concessioni messe a gara, il secondo su due gare fatte in provincia di Bolzano.
Se tutte le concessioni italiane fossero assegnate con la base d’asta della Lombardia si avrebbero investimenti per 18 miliardi di euro (21,9 per cento in più rispetto alla “quarta via”); se invece si facessero le gare con i criteri di Bolzano gli investimenti sarebbero di 23 miliardi di euro (45,7 per cento in più). «Se è comprensibile la resistenza dei concessionari uscenti, è del tutto incomprensibile la solidarietà alle loro istanze manifestata da una parte consistente delle forze politiche», hanno scritto Sileoni e Stagnaro. «L’interesse del paese non coincide necessariamente con l’interesse dei concessionari uscenti. Le gare servono appunto a misurare la distanza».



