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  • Lunedì 22 settembre 2025

La disobbedienza civile dei portuali contro il traffico di armi verso Israele

Negli ultimi due anni è stato impedito il passaggio di diversi carichi a Genova, Salerno, Livorno e Ravenna

di Isaia Invernizzi

Il presidio dei portuali di Genova all'ingresso del porto in occasione dello sciopero del 22 settembre
Il presidio dei portuali di Genova all'ingresso del porto in occasione dello sciopero del 22 settembre (ANSA/LUCA ZENNARO)
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La scorsa settimana la mobilitazione dei portuali di Ravenna, e di una sessantina tra associazioni e comitati pacifisti, ha convinto il comune a impedire l’imbarco di due container carichi di esplosivi diretti in Israele. Il sindaco Alessandro Barattoni ha detto che non si può continuare a far finta di non vedere e non sapere quanto sia disumano contribuire al massacro dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Barattoni si riferisce alle armi e alle munizioni che arrivano dall’estero, e che ripartono dai porti italiani quasi di nascosto, in container anonimi, in molti casi senza autorizzazione.

Da quando l’esercito israeliano ha iniziato a bombardare in modo indiscriminato la Striscia di Gaza, l’attenzione nei confronti di questi traffici è aumentata. In molte città italiane i portuali, i lavoratori che scaricano e caricano la merce dalle navi, hanno scoperto carichi di armi e munizioni e si sono rifiutati anche solo di toccarli. Riuniti in collettivi e sindacati di base, hanno organizzato manifestazioni, picchetti e scioperi per fare pressione sulle autorità portuali e sugli enti locali.

Dal porto di Genova, le azioni di disobbedienza civile si sono estese a Livorno, Ravenna, Salerno e altri porti italiani.

Come ha rivelato un’inchiesta del Manifesto, negli ultimi due anni alcuni spedizionieri hanno esportato armi senza chiedere l’autorizzazione all’UAMA, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento che dipende dal ministero degli Esteri. L’autorizzazione è obbligatoria per esportare, importare, anche solo far passare armi e munizioni dall’Italia.

Un caso esemplare è avvenuto proprio a Ravenna il 30 giugno, quando due container pieni di munizioni arrivati via camion dall’Austria sono stati imbarcati su una nave diretta in Israele senza avere l’autorizzazione dell’UAMA. L’agenzia delle dogane ha spiegato che lo spedizioniere si era appellato all’articolo 10 bis della legge 185/90, che regola il traffico di armi. L’articolo dice che se l’Italia è un punto di transito di un commercio di armi tra due paesi membri dell’Unione Europea non serve chiedere l’UAMA. E però Israele non è nell’Unione Europea.

«Abbiamo denunciato questo inganno e gli spedizionieri ci hanno scritto che l’autorizzazione non serve solo perché Israele ha un posto stabile tra gli “amici” della NATO, ma la legge è molto chiara», spiega Carlo Tombola di Weapon Watch, un’associazione che monitora il traffico di armi in Italia e in Europa. «La complicità del governo e di aziende italiane nei crimini che sta commettendo Israele è ormai evidente. Nel caso delle armi è una complicità oggettiva».

La legge 185 stabilisce tra le altre cose che l’Italia non può vendere armi a paesi in guerra o che violano le convenzioni internazionali. Per questo motivo dopo il 7 ottobre del 2023 l’UAMA non ha formalmente concesso nuove esportazioni verso Israele, anche se sono rimaste valide le licenze firmate in precedenza. I dati dell’ISTAT dicono però che nel 2024 ci sono state esportazioni verso Israele di “armi, munizioni e loro parti e accessori” per un valore di 5,8 milioni di euro e che le esportazioni sono continuate negli ultimi mesi. Sono tra l’altro dati parziali, che non tengono conto di molto materiale e tecnologia esportati e utilizzati poi per scopi militari.

Le segnalazioni di carichi sospetti arrivano ai sindacati da associazioni come Weapon Watch oppure da media di giornalismo investigativo come il francese Disclose. Negli ultimi mesi molte sono arrivate direttamente dai portuali. Quando le navi trasportano cannoni, mezzi corazzati o elicotteri l’identificazione è più semplice, ma nel tempo i lavoratori hanno imparato a riconoscere anche il contenuto dei container attraverso le sigle riportate sui documenti, le polizze assicurative o le prescrizioni di carico in spazi protetti delle navi.

Alla fine di luglio al porto della Spezia le proteste dei portuali del sindacato di base USB hanno impedito lo sbarco di cinque container che contenevano acciaio diretto in Israele e destinato alla produzione di armamenti. La nave della compagnia di navigazione Cosco si è fermata al largo per poi tornare in Estremo Oriente, da dove era partita. Dall’inizio dell’anno a Genova il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali (CALP) ha organizzato molti presidi e manifestazioni: all’inizio di agosto il collettivo ha impedito il carico di un cannone costruito dall’azienda italiana Leonardo su una nave diretta ad Abu Dhabi.

Il presidio dei portuali di Genova in occasione dello sciopero del 22 settembre (ANSA/Luca Zennaro)

A Genova la mobilitazione non è iniziata con i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Già nel 2019 i camalli genovesi – il loro nome deriva dall’arabo hammal, letteralmente “faticatore a spalla” – scioperarono contro l’attracco della nave Bahri Yanbu che trasportava armi in Yemen. «Nel 2019 riprendemmo le lotte dei nostri padri e dei nostri nonni, attualizzandole», dice Riccardo Rudino del CALP. «Contrastiamo il traffico d’armi che parte dagli Stati Uniti, dal Nord Europa e anche dall’Italia, diretto verso Israele, la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti. Queste aziende hanno soldi, influenza e potere per continuare a trafficare armi, ma a Genova non le facciamo passare».

Il principio alla base delle loro azioni è la disobbedienza civile, uno dei pochi strumenti a disposizione dei lavoratori o più semplicemente delle persone per incidere in un settore, il traffico di armi e la logistica, in cui le grandi aziende hanno un’enorme influenza economica e politica. Spesso durante le assemblee degli ultimi mesi i lavoratori del porto si sono chiesti quanto sia lecito o necessario violare le regole e rischiare provvedimenti disciplinari o denunce per evitare le conseguenze di questi traffici: per esempio che uno degli esplosivi trasportati nei container usciti dai loro porti uccida qualcuno.

Presidio dopo presidio, i portuali del CALP si sono accorti che affinché la loro azione sia davvero efficace non basta fermare la singola nave con un carico armi o munizioni: col tempo infatti gli spedizionieri hanno studiato contromosse, per esempio ritardano l’arrivo o aggiungono altre tappe nel viaggio. Proprio come accade in questi giorni per lo sciopero generale in solidarietà alla popolazione palestinese, le manifestazioni del CALP ora bloccano l’intero porto: è un modo per fare pressione a tutte le compagnie di navigazione, per estendere le conseguenze di questi traffici a tutta la catena della logistica.

L’esempio è stato seguito da altri collettivi di portuali come il GAP, Gruppo autonomo portuale di Livorno, che dall’inizio dell’anno ha organizzato molti presidi e manifestazioni. Oltre a opporsi ai traffici internazionali, per i lavoratori c’è anche una non trascurabile questione di sicurezza. Chi si appresta a scaricare un container infatti non ha molte informazioni sul carico, e anche se il rischio di incidenti è molto basso, c’è comunque differenza tra spostare un esplosivo e degli elettrodomestici. «È inaccettabile che cittadini e lavoratori portuali siano esposti a questi rischi. È inaccettabile che la nostra città diventi complice del traffico di armi», ha scritto in una nota l’Unione sindacale di base di Livorno.

Il 26 e il 27 settembre le delegazioni dei portuali di molte città si troveranno a Genova per discutere di iniziative comuni, perché finora al di là di qualche collaborazione tutte si sono mosse in autonomia. L’obiettivo è estendere la mobilitazione, renderla ancora più internazionale e coinvolgere altri lavoratori della catena della logistica nelle azioni di disobbedienza civile.