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  • Mercoledì 3 settembre 2025

Storia del blocco navale della Striscia di Gaza

E di chi nel corso degli anni ha provato a superarlo, quasi sempre senza riuscirci

Una protesta contro il blocco navale nel 2013, a Gaza (AP Photo/Adel Hana)
Una protesta contro il blocco navale nel 2013, a Gaza (AP Photo/Adel Hana)
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Le barche della Global Sumud Flotilla partite domenica da Genova e Barcellona hanno l’obiettivo di portare cibo e beni di prima necessità nella Striscia di Gaza e quindi rompere il blocco navale imposto da Israele. Il blocco va avanti dal 2009: nessuna barca o nave può approdare nei porti di Gaza o entrare nelle sue acque territoriali, a 12 miglia nautiche dalla costa (circa 22 chilometri). L’approdo a Gaza era già limitato prima del 2009, sin dagli anni Novanta, mentre dal 7 ottobre 2023, quindi dall’attacco di Hamas in Israele, è vietata ogni navigazione, anche quella dei pescherecci di Gaza.

Dal 2008 ci sono stati molti tentativi di rompere il blocco. Nel 2010, durante uno di questi, l’esercito israeliano uccise 10 attivisti. Da allora nessuno ha mai avuto successo.

La legalità del blocco navale è stata dibattuta nel corso degli anni. Nel 2011 una commissione istituita dall’ONU lo ritenne «legittimo» nel contesto di un conflitto internazionale: dopo mesi di lavori concluse che Israele stesse conducendo una guerra contro un paese straniero e per questo potesse attuare misure di guerra marittima come il blocco. Questa interpretazione fu messa molto in discussione (e lo è ancora oggi) da esperti e organizzazioni internazionali, cioè da chi ritiene che la situazione di Gaza non sia quella di una guerra fra due entità statali e che Hamas non possa essere considerata rappresentativa della Striscia.

Il blocco navale dura in maniera continuativa da 13 anni, con effetti profondi sulla popolazione palestinese. Attualmente le ong, gli attivisti, i giuristi e i governi che lo ritengono illegale sottolineano come gli effetti del blocco – carestia e impossibilità di far pervenire aiuti, tra gli altri – siano uno dei mezzi con cui Israele conduce una punizione collettiva della popolazione palestinese, in violazione del diritto internazionale.

Navi da guerra israeliane al largo del porto di Ashdod (AP Photo/Ariel Schalit)

Le prime limitazioni alla navigazione al largo della Striscia di Gaza furono codificate nel 1995 con gli accordi conosciuti come Oslo II, che seguivano i più generali accordi di Oslo, i primi in cui Israele e Palestina si riconoscevano come legittimi interlocutori e impostavano l’autogoverno dei palestinesi. Furono firmati dal governo israeliano e dall’Autorità nazionale palestinese, l’entità nata un anno prima per governare la Striscia e la Cisgiordania ed espressione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat. Oslo II definiva il controllo israeliano delle acque territoriali di Gaza e permetteva ai pescherecci di Gaza la pesca entro le 6 miglia nautiche (11 chilometri).

Il precedente accordo del 1994, detto di Gaza-Jericho, aveva margini più ampi (20 miglia nautiche, 37 chilometri) ma non fu mai implementato perché Israele sostenne che i pescherecci venissero utilizzati per fare entrare armi nella Striscia. I limiti di pesca variarono negli anni, ma tutte le barche che volevano entrare a Gaza da fuori erano dirottate al porto di Ashdod, dove il carico veniva esaminato e poi fatto entrare via terra nella Striscia, nei periodi in cui Israele lo permetteva.

Nel 2008 due barche a vela dell’organizzazione internazionale Free Gaza Movement, fondata da attivisti californiani, riuscirono ad approdare sulle coste di Gaza (in due momenti diversi), perché l’esercito israeliano decise di non fermarle. Free Gaza Movement portò a Gaza una quantità simbolica di materiale medico e nel primo caso ripartì verso Creta con un ragazzo palestinese a cui era stata amputata una gamba per le ferite riportate nell’esplosione di una bomba.

Free Gaza Movement nel complesso fece partire 31 barche verso la Striscia fra il 2008 e il 2016. Rivendicò il successo di altre tre spedizioni, fra la fine del 2008 e l’inizio del 2009.

Anche in seguito a questi tentativi, dal 1 gennaio del 2009 Israele formalizzò il blocco navale, in un’area che copre l’intera costa della Striscia, per 20 miglia nautiche. Pattugliatori israeliani controllano da allora il rispetto del divieto di navigazione, intervenendo in caso di violazioni dall’esterno o più spesso per sconfinamenti dei pescherecci, anche sparando sulle imbarcazioni.

Il 31 maggio del 2010 sei imbarcazioni della Gaza Freedom Flotilla provarono ad approdare sulla costa di Gaza, rompendo il blocco. La spedizione era stata organizzata da Free Gaza Movement e dalla ong turca Humanitarian Relief Foundation, che possedeva e gestiva anche la nave più grossa, la Mavi Marmara, che aveva quasi 600 persone a bordo e portava fra le altre cose 10mila tonnellate di calcestruzzo, da usare come materiale edile.

Le barche della flotta furono assaltate da motovedette ed elicotteri dell’esercito israeliano. Quaranta dei passeggeri della Mavi Marmara opposero resistenza violenta ai soldati, catturandone temporaneamente tre. L’esercito rispose sparando e uccise nove persone (otto turchi e uno statunitense di origini turche), mentre una decima sarebbe morta dopo 4 anni di coma.

Secondo indagini svolte in seguito in Turchia, alcune delle persone uccise avevano ferite da arma da fuoco alla testa compatibili con esecuzioni ravvicinate. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite definì l’assalto di Israele contro la Mavi Marmara «sproporzionato», «brutale» e una violazione del diritto internazionale.

La Mavi Marmara quando tornò a Istanbul nel dicembre del 2010 (AP Photo/Burhan Ozbilici)

Dopo quel caso l’allora ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman propose la creazione di un corridoio navale umanitario fra Cipro e Gaza: le navi sarebbero state sottoposte a ispezioni a Cipro e poi autorizzate ad approdare al porto di Gaza, per trasportare aiuti. La proposta però non ebbe seguito.

Lieberman la ripresentò quasi uguale nel 2018, quando era ministro della Difesa, anche in questo caso senza successo. In entrambi i casi mancò sostegno interno e internazionale: il progetto avrebbe avuto bisogno di grossi investimenti infrastrutturali e della collaborazione di paesi esteri nei controlli alla partenza. Esponenti del governo di cui Lieberman faceva parte ritennero il piano inattuabile, mentre Hamas lo definì «una proposta vuota».

Nel 2011 la Freedom Flotilla II fu fermata perlopiù prima della partenza dalle coste greche, con sabotaggi delle navi e per decisione del governo greco, su pressione di quello israeliano. Partì una sola barca a vela, che fu intercettata in acque internazionali e portata al porto israeliano di Ashdod. Gli attivisti furono detenuti temporaneamente e poi espulsi.

Da allora i successivi tentativi – nel 2015, nel 2018 e più recentemente negli scorsi mesi – hanno avuto sempre lo stesso esito: navi fermate e abbordate, attivisti detenuti ed espulsi. L’eccezione è quella della barca Conscience, che nel maggio del 2025, quando era ancora non lontana dalle coste di Malta, è stata colpita due volte, secondo gli attivisti da un drone israeliano.

La mappa del blocco navale e dei diritti di pesca nel 2023, prima del 7 ottobre (OCHA OpT, Public domain, via Wikimedia Commons)

Il blocco attuale non vale solo per le imbarcazioni che vengono da fuori verso Gaza, ma anche per i pescherecci che partono dalle coste della Striscia.

Negli anni Novanta la pesca occupava circa 45mila palestinesi (compreso l’indotto) e valeva circa 10 milioni di dollari l’anno e il 4 per cento del PIL. Per le continue limitazioni e per i molti attacchi della marina israeliana già prima dell’attuale guerra la quantità di pesce pescato ogni anno si era più che dimezzata, e il 90 per cento dei 3.800 pescatori della Striscia viveva sotto la soglia della povertà. Gli episodi in cui la marina israeliana ha sparato verso le barche dei pescatori sono stati migliaia a partire dal 2000, con frequenza di uno al giorno a partire dal 2022.

Un pescatore palestinese a Gaza, nel 2018 (AP Photo/Adel Hana)

Già all’inizio della guerra era ufficialmente vietato ai palestinesi entrare in mare, sia con le barche sia semplicemente per fare il bagno. Era un divieto che non veniva fatto rispettare sempre da Israele, che tollerava alcune cose. Dalla metà del 2025 però è stato ribadito e da allora la pesca e ogni ingresso in mare sono assolutamente vietati. Alcuni pescatori, spinti dalla fame, hanno comunque continuato una saltuaria attività, rischiando ogni volta la vita.

Non esiste una convenzione ONU specifica e vincolante che disciplini in dettaglio i blocchi navali nei conflitti armati. Uno dei documenti di riferimento è il Manuale di San Remo sul diritto internazionale applicabile ai conflitti armati in mare, del 1995: non è un trattato e non è vincolante, ma è influente e usato come riferimento per interpretare la legalità delle operazioni navali, inclusi i blocchi. Israele si appella a quel trattato per sostenere la legittimità del blocco, e le critiche internazionali riguardano la violazione di vari articoli, che prevedono che il blocco non infligga danni in modo sproporzionato alla popolazione civile, non la affami e non ostacoli gli aiuti umanitari. Esiste poi una questione di proporzionalità delle misure attuate nella conduzione di una guerra che è invece regolamentata dal diritto internazionale e che secondo molti giuristi il blocco navale attuale non rispetta.