Agli Stati Uniti non sta bene che il ponte sullo Stretto rientri nelle spese militari
Il governo italiano vorrebbe usare questo espediente per aggirare e alleggerire l’impegno con la NATO ad aumentare le spese per la difesa

L’ambasciatore degli Stati Uniti alla NATO, Matthew Whitaker, ha criticato il tentativo del governo italiano di inserire i costi del ponte sullo Stretto – circa 13,5 miliardi di euro – nell’accordo firmato alla fine di giugno dai paesi della NATO per alzare al 5 per cento del Prodotto interno lordo (PIL) la propria spesa militare entro il 2035. Il governo aveva proposto questa soluzione un po’ creativa per aggirare e alleggerire il suo impegno di spesa.
Whitaker ha messo in guardia il governo in modo inequivocabile. «Ho avuto colloqui anche oggi con alcuni paesi che stanno adottando una visione molto ampia della spesa per la difesa», ha detto in un’intervista a Bloomberg. «Era molto importante che l’obiettivo del 5 per cento si riferisse specificamente alla difesa e alle spese ad essa correlate e che l’impegno fosse assunto “a viso aperto”. Non per ponti privi di valore strategico militare. Non per scuole che in qualche modo – in qualche immaginario mondo di fantasia – sarebbero state utilizzate per qualche altro scopo militare».
A un’esplicita domanda in merito al ponte sullo Stretto, Whitaker ha detto di seguire la situazione con molta attenzione. «Rispetto al vertice del Galles del 2014, la cosa positiva è che stavolta alla NATO abbiamo meccanismi di supervisione», ha detto.
Gli Stati Uniti hanno una particolare attenzione su questi conti perché la richiesta di aumentare le spese per la difesa fino al 5 per cento del PIL è stata fatta con insistenza dal presidente Donald Trump, secondo cui i paesi membri della NATO finora non hanno contribuito a sufficienza ai costi dell’alleanza.
L’impegno preso dai paesi, tra cui l’Italia, è graduale nel tempo e soprattutto si compone di due voci: un 3,5 per cento di spese per la difesa, cioè per gli armamenti, i soldati e in generale per il personale dell’esercito; e un 1,5 per cento di spese per la sicurezza (cioè le infrastrutture come porti e ferrovie che in caso di guerra potrebbero essere usate dalle forze armate), gli investimenti in sicurezza informatica, l’installazione di cavi sottomarini per il passaggio di energia, gas o dati, e persino la gestione dell’immigrazione.
Il riferimento al vertice del Galles nel 2014 fatto da Whitaker non è casuale perché negli ultimi anni l’Italia ha rispettato gli impegni presi all’epoca – aumentare le spese militari fino al 2 per cento del PIL entro la fine del 2025 – con una sorta di artificio contabile, facendo rientrare nei conti anche spese che all’apparenza c’entrano poco con la difesa. Alcuni esempi sono le pensioni dei militari, che finora rientravano prevalentemente nel bilancio dell’INPS, le spese per lo Spazio, quelle per la guardia costiera e alcune voci di spesa della Protezione civile.
Questo espediente è stato sostenuto soprattutto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che è riuscito a sfruttare alcune ambiguità delle regole finanziarie della NATO e che avrebbe voluto sfruttarle anche nel nuovo accordo.
Negli ultimi due mesi infatti vari esponenti del governo tra cui il ministro dei Trasporti Matteo Salvini hanno parlato del ponte definendolo un’opera “dual use”, cioè con funzioni militari e civili. «Che possa avere un “dual use” anche per motivi di sicurezza è evidente», ha detto Salvini. «Non entro nel campo di lavoro dei colleghi Giorgetti e Crosetto. Saranno loro a decidere cosa rientra in quell’aumento di spese militari».
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