I “redditi di cittadinanza” regionali ci sono già e sono un gran caos

Li hanno introdotti sia giunte di destra che di sinistra, ma ognuna fa a modo suo, e ora sono il tema più discusso in campagna elettorale

Manifestazione contro l'abolizione del Reddito di cittadinanza, a Roma, il 27 maggio 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Manifestazione contro l'abolizione del Reddito di cittadinanza, a Roma, il 27 maggio 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Nella campagna elettorale per le regionali sta guadagnando notevole spazio la polemica intorno all’istituzione di strumenti simili al reddito di cittadinanza, ma su scala locale. Sia il presidente uscente della Toscana Eugenio Giani, del Partito Democratico, sia il candidato del centrosinistra in Calabria Pasquale Tridico, del Movimento 5 Stelle, si sono impegnati a creare un sussidio, erogato dalla regione, a favore delle persone in grande difficoltà economica. E lo stesso proposito è stato già manifestato da Roberto Fico del M5S, che sarà con ogni probabilità il candidato del centrosinistra in Campania (manca l’ufficialità), durante una riunione coi propri alleati.

Gli avversari di Giani e di Tridico hanno criticato duramente queste proposte: sia sul piano tecnico, sia su quello politico. In particolare è stata notevole la replica di Roberto Occhiuto, presidente uscente della Calabria di Forza Italia (che si ricandida).

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Da entrambi i lati il dibattito è connotato dalle vaghezze e dalle ipocrisie tipiche di una campagna elettorale. Infatti a ben vedere strumenti di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà, con meccanismi tra loro più o meno simili, sono stati introdotti in varie forme dalle regioni fin dalla metà del decennio scorso. Molti a partire dal 2024, quando il governo di Giorgia Meloni ha abolito il reddito di cittadinanza nazionale che era stato introdotto nel 2019 dal primo governo di Giuseppe Conte.

Da allora numerose giunte, di diverse parti politiche, hanno ripensato sussidi su scala locale, in parte per sopperire alla mancanza di uno strumento nazionale: tra gli altri c’è il reddito di dignità della Puglia, guidata dal centrosinistra, il reddito di povertà della Sicilia, guidata dal centrodestra, o il reddito di inclusione sociale della Sardegna, creato dal centrosinistra, mantenuto dal centrodestra e ora potenziato dal centrosinistra.

Evidenziare alcune di queste incoerenze è utile a dare un contesto. Per esempio: per dimostrare l’infondatezza del progetto di Tridico, ex europarlamentare del M5S che è stato presidente dell’INPS e uno degli ideatori del reddito di cittadinanza, Occhiuto ha coinvolto in un video Marcello Minenna, il suo assessore al Bilancio, che sostiene che la misura non sia finanziariamente sostenibile, così come presentata da Tridico.

È una posizione curiosa perché Minenna ha una carriera un po’ particolare: è stato assessore nella giunta comunale di Roma di Virginia Raggi, poi per anni molto vicino al M5S e nominato dal Movimento direttore dell’Agenzia delle dogane; infine si è avvicinato al centrodestra ed è stato incluso nella giunta di Occhiuto nel gennaio del 2023. Ma soprattutto Minenna in passato è stato uno dei principali sostenitori dell’introduzione del reddito di cittadinanza, appoggiando peraltro le tesi di Tridico nel 2018. Occhiuto si affida a Minenna proprio per questo, e dice che se persino lui (un «grande economista italiano che (…) ha lavorato con Beppe Grillo e ha lavorato con Giuseppe Conte») boccia la proposta di Tridico, allora è chiaro che questa proposta non sta in piedi.

Ma nella posizione di Occhiuto ci sono altre incoerenze: innanzitutto il fatto che proprio Forza Italia, col presidente della regione Renato Schifani, ha introdotto quest’anno in Sicilia uno strumento analogo, dopo avere assunto a livello nazionale posizioni nel tempo diverse e spesso opposte (da «aboliamolo» a «raddoppiamolo»).

Il meccanismo di finanziamento utilizzato dalla Sicilia è peraltro abbastanza simile a quello proposto da Tridico, anche se ancora ci sono informazioni sommarie: un sussidio che usi i fondi europei messi a disposizione per gli indigenti (FEAD), o per le politiche attive del lavoro e per il contrasto alla povertà (Fondo sociale europeo). Insomma, quella che Occhiuto descrive come una proposta fatta «speculando sul bisogno, sulla sofferenza, sulla disperazione di chi non ha un lavoro», è una misura che il suo collega di partito Schifani rivendica di aver «fortemente voluto» per «fornire un aiuto tangibile alle persone più vulnerabili».

In Sicilia, nella fattispecie, dallo scorso febbraio possono accedere al reddito di povertà le persone che risiedono da almeno 5 anni nella regione e con un Isee (cioè un indicatore della situazione economica che fotografa l’effettiva ricchezza dichiarata di una persona o di una famiglia) inferiore ai 5mila euro nel 2023. L’entità del sussidio varia da 2.500 a 5.000 euro annui, a seconda dell’Isee.

In realtà sono parecchie le regioni che hanno strumenti simili, più o meno efficaci. Negli ultimi anni, dopo che i governi nazionali hanno prima introdotto e poi abolito il reddito di cittadinanza, questi strumenti sono stati cambiati e ripensati, spesso più volte. «Il risultato è stato quello di una polverizzazione di questi servizi di welfare, con le varie regioni che sono andate ciascuna in ordine sparso, creando spesso anche delle sperequazioni tra territori vicini, e quasi sempre generando confusione», spiega Maurizio Del Conte, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano ed ex presidente dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL).

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L’Emilia-Romagna, governata dal centrosinistra, l’anno scorso per esempio ha ridefinito uno strumento, chiamato reddito di libertà, per sostenere la ricerca del lavoro e la promozione di imprese da parte di donne che hanno subito violenza. Analogamente la Lombardia, governata stabilmente dalla destra, ha rifinanziato il reddito di autonomia, originariamente entrato in vigore nel 2015, che prevede dei bonus per persone anziane o disabili e famiglie in condizioni di disagio.

Il leghista Luca Zaia ad aprile ha introdotto in Veneto il Bonus Politiche Attive, finanziato con 70 milioni di euro di fondi nazionali ed europei, destinato ai disoccupati della sua regione, con un sussidio che va da 300 a 700 euro e che dura al massimo per cinque mesi. In Sardegna l’ex presidente Christian Solinas, espresso dalla Lega, prima aveva annunciato la sospensione del reddito di cittadinanza, poi aveva rifinanziato il reddito di inclusione sociale regionale, ora ulteriormente foraggiato dalla giunta di Alessandra Todde, di centrosinistra.

Il M5S calabrese dice però di volersi ispirare piuttosto al reddito di dignità della Puglia, una regione che tra le prime, nel 2016, introdusse uno strumento del genere. Si tratta di un assegno da 500 euro erogato per non più di 12 mesi a chi risiede da almeno un anno in regione, con un Isee non superiore a 9.360 euro (o non superiore a 20mila per le famiglie con 3 figli) e che sia disponibile a svolgere almeno 62 ore di lavoro mensile.

Gli ultimi dati reperibili sono del luglio del 2023. Dal 2016 fino a quel momento, le domande di reddito accolte erano state 32.763, per una spesa totale di poco più di 59 milioni di euro. Un confronto col reddito di cittadinanza nazionale aiuta a comprendere quanto sia limitato lo strumento regionale. In 7 anni il reddito di dignità pugliese aveva coinvolto meno di 33mila persone; in meno di 4 anni (tra l’estate del 2019 e il marzo del 2023) le famiglie che avevano ricevuto il reddito di cittadinanza erano state 106.737, per un totale di oltre 245mila persone raggiunte. L’importo massimo del sussidio erogato dalla regione era di 500 euro, quello medio di cui avevano beneficiato i percettori pugliesi del reddito di cittadinanza era di 593 euro.

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«Nel complesso, quella che è venuta quasi del tutto meno è la componente di sostegno alla ricerca del lavoro, quella appunto delle politiche attive», spiega Del Conte. «Era già la parte di gran lunga meno efficace nel reddito di cittadinanza, e questa mancanza era ciò che legittimava in parte alcune delle critiche a quello strumento; ma le regioni non hanno affatto le capacità per vincolare la ricezione del sussidio a una effettiva ricerca di un posto di lavoro, né per favorire una reale comunicazione tra persone in cerca di occupazione e imprese», dice.

Sono insomma sussidi efficaci per contrastare la povertà, ma non per ridurre la disoccupazione o il lavoro sottopagato: per questo nella percezione di chi li critica, dice ancora Del Conte, «appaiono sempre più come sussidi elargiti un po’ a pioggia».