Rodrigo Moya fotografò i vent’anni più turbolenti dell’America Latina

Ritrasse guerriglieri e lotte politiche, oltre che un melanconico “Che” Guevara e García Márquez con un occhio pesto

Rodrigo Moya nel suo laboratorio, 1963 
(Rodrigo Moya, courtesy The Wittliff Collections/Texas State University)
Rodrigo Moya nel suo laboratorio, 1963 (Rodrigo Moya, courtesy The Wittliff Collections/Texas State University)
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Una delle foto più celebri di Rodrigo Moya ritrae il rivoluzionario argentino Ernesto “Che” Guevara nel 1964. È anche una delle foto più famose di Che Guevara, perché più intima di quelle ufficiali o in tenuta da guerrigliero. Non molto tempo dopo quel ritratto, quando nel 1967 Che Guevara fu ucciso, Moya smise di fare il fotogiornalista, anche se non smise di fare foto. Era deluso dal funzionamento del settore dei media, ed era soprattutto disilluso dalla politica. Moya è morto il 30 luglio in Messico ed è stato ricordato come uno dei più importanti fotoreporter latinoamericani, per come tra gli anni Cinquanta e Sessanta documentò la lotta armata in America Latina, gli scioperi e le condizioni di vita delle persone comuni.

Moya nacque a Medellín, in Colombia, trent’anni prima di quella foto del Che. La sua famiglia era messicana da parte del padre – il pittore Luis Moya Sarmiento – e colombiana da parte della madre, Alicia Moreno Vélez. Nel 1937 i Moya si trasferirono a Città del Messico, dove in seguito Rodrigo iniziò a lavorare come fotografo per la rivista Impacto, abbandonando gli studi di Ingegneria.

Si distinse per un approccio originale, privilegiando soggetti in contraddizione con l’immagine del Messico come paese moderno e in rapido sviluppo economico che voleva dare il Partito rivoluzionario istituzionale, che governava ininterrottamente dal 1929 (e avrebbe continuato a farlo fino al 2000).

Moya era un convinto marxista e questa scelta significò non poter pubblicare molte delle foto per cui in seguito venne celebrato: quelle degli scioperi e delle proteste contro il governo, per esempio, o quelle della miseria ancora diffusa nella capitale come nelle regioni rurali.

Dei suoi esordi Moya raccontò che immaginava di «avere due macchine fotografiche nella mente»: una per i lavori su commissione con cui si pagava da vivere, e una per la sua «coscienza ribelle», con cui immortalava «il mondo contraddittorio che andavo scoprendo nei miei giri da reporter». Le foto del secondo tipo, custodite in un archivio da 40mila negativi e ripubblicate a fine anni Novanta, sono quelle più memorabili.

La vida no es bella (La vita non è bella), 1965, dal reportage “Ixtleros”, Coahuila (© Rodrigo Moya, courtesy The Wittliff Collections/Texas State University)

Negli anni successivi Moya uscì dal Messico per seguire i conflitti armati in America Latina, con una continuità e una profondità piuttosto uniche, perché spesso visse insieme ai ribelli. Andò in Guatemala e in Venezuela, per esempio, e nel 1965 fu l’unico fotogiornalista latinoamericano a documentare l’intervento militare degli Stati Uniti nella Repubblica Dominicana.

Risale a questo periodo una delle fotografie a cui Moya disse di essere più legato, nonostante nella sua carriera avesse fotografato alcune delle personalità più famose della sua epoca, non solo dell’America Latina ma per esempio anche il presidente statunitense John F. Kennedy. È quella qui sotto: mostra un gruppo di guerriglieri venezuelani con cui Moya aveva trascorso diverse settimane nella foresta.

Guerrilleros en la niebla (Guerriglieri nella nebbia), 1966, Sierra Falcón, Venezuela (© Rodrigo Moya, courtesy The Wittliff Collections/Texas State University)

La foto di Che Guevara è una storia a parte. Moya faceva parte di una delegazione messicana che doveva incontrare Fidel Castro. All’ultimo momento l’appuntamento fu cancellato e alla delegazione vennero dati 15 minuti per parlare con Che Guevara. L’incontro però durò più di due ore grazie alla presenza del fumettista Eduardo del Río, di cui Che Guevara era un ammiratore.

Moya così ebbe la possibilità di scattare foto in momenti diversi della conversazione, meno formale delle interviste abituali. Ne risultarono 19 ritratti, incluso quello «melanconico» (come da titolo della fotografia), in cui Che Guevara pare mordere più che fumare l’abituale sigaro e ha lo sguardo perso nel vuoto. Secondo gli esperti è uno scatto «leggermente più da vicino, più personale, più neutrale» di tutti gli altri.

Che melancólico (Che malinconico), 1964, L’Avana, Cuba (© Rodrigo Moya, courtesy The Wittliff Collections/Texas State University)

Il quotidiano spagnolo El País ha scritto che Moya fu «un testimone della storia» e che, «anche se il suo lavoro giornalistico lo colloca tra i documentaristi più importanti della regione», fu al tempo stesso uno straordinario ritrattista.

Uno dei suoi ritratti più celebri è di Gabriel García Márquez. Moya fotografò lo scrittore colombiano premio Nobel per la letteratura in due occasioni: una nel 1966, per la prima edizione del libro Cent’anni di solitudine, e l’altra nel 1976. La foto scattata questa seconda volta è di gran lunga più famosa, e la ragione è che mostra García Márquez con un occhio pesto. Fu pubblicata solo nel 2007, in occasione degli 80 anni dello scrittore, e diede adito ad anni di gossip letterari.

In breve, l’occhio nero di García Márquez era dovuto al pugno di un altro premio Nobel, lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. Sulla lite, che per decenni incrinò l’amicizia tra i due, ci sono varie versioni: la più diffusa è che, secondo Vargas Llosa, García Márquez si era impicciato troppo nel suo matrimonio.

Era stato García Márquez a presentarsi da Moya, il giorno di San Valentino, per avere un ricordo dell’evento. Moya raccontò che però l’espressione seriosa e melodrammatica dello scrittore non lo convinceva e allora cercò di farlo sorridere. Ci riuscì dicendogli «Oye te dieron un chingadazo de poca madre», cioè «Ti hanno dato un cazzotto incredibile». García Márquez rise e lui scattò: la forza della foto sta proprio nel contrasto tra l’occhio nero e l’espressione giocosa.

Le foto di García Márquez con l’occhio nero

Nel 1976, quando fotografò García Márquez, Moya aveva già smesso ufficialmente di fare il fotogiornalista da quasi una decina di anni. Era dipeso da motivazioni economiche e, come detto, dall’autocensura che percepiva nella stampa messicana e dalla disillusione sulle prospettive della sinistra latinoamericana dopo l’uccisione di Che Guevara.

Fondò una rivista mensile sulla pesca, Técnica Pesquera, che diresse per 22 anni, finché chiuse nel 1990. Nel 1999 gli fu diagnostica una forma di cancro e sua moglie, l’illustratrice Susan Flaherty, lo convinse a rimettere le mani nel suo archivio. Nel 2004 pubblicò la raccolta ​Foto Insurrecta e da lì in poi il suo lavoro venne esposto in varie mostre, apprezzato e riscoperto.