Centinaia di adulti inglesi patiscono ancora le conseguenze di aver imparato un alfabeto alternativo
Negli anni Sessanta fu insegnato in decine di scuole per facilitare l'apprendimento della lettura, ma non funzionò

In un recente articolo pubblicato sul Guardian la giornalista Emma Loffhagen ha raccontato di come sua madre Judith sia la persona più scarsa che conosca in ortografia. Judith Loffhagen era sempre stata una grande lettrice e la sua materia preferita a scuola era proprio l’inglese, ma ancora adesso che è un’avvocata e ha un’attività avviata le capita di fare errori banali, come scrivere la parola me con due “e”. Non c’entrano né la dislessia né altri disturbi dell’apprendimento: Judith era una delle migliaia di bambine e bambini inglesi a cui era stato insegnato un alfabeto particolare, in una sperimentazione poco nota e poco documentata, ma che a decenni di distanza continua a creare grattacapi a moltissime persone.
La storia di Judith Loffhagen è simile a quella di Gary Blackwell, che ha 62 anni, è un personaggio noto nella nicchia di appassionati di metal detector e in uno dei suoi video su YouTube spiega che con certe parole fa ancora fatica, visto che da bambino aveva imparato a leggere e scrivere «quasi una lingua diversa». Entrambi si riferiscono all’Initial Teaching Alphabet (i.t.a., o ITA), l’alfabeto che tra gli anni Sessanta e Settanta fu introdotto in decine di scuole in tutto il Regno Unito con l’obiettivo di facilitare la lettura.
L’inglese può essere ostico da imparare a leggere e scrivere perché a differenza di altre lingue, come l’italiano, la sua grafia e la sua pronuncia sono irregolari. Ci sono parole scritte in modo diverso, ma che si leggono allo stesso modo (buy, by, bye), e altre scritte in modo simile che invece si pronunciano molto diversamente (hear, heart, heard). Nel tempo per superare queste difficoltà sono stati inventati diversi alfabeti alternativi, tutti abbastanza fallimentari.
Uno di questi è proprio l’ITA, una variante dell’alfabeto latino sviluppata all’inizio degli anni Sessanta da James Pitman, editore e politico conservatore, nonché nipote di Isaac Pitman, che a metà Ottocento inventò l’omonimo metodo di stenografia. In un dibattito parlamentare del 1953, Pitman sostenne che le incongruenze tra grafia e pronuncia nell’inglese fossero alla base delle difficoltà di lettura di moltissime bambine e bambini, oltre che un fattore di rischio per la loro formazione e il loro futuro. Per cercare di indicare più chiaramente il suono delle lettere combinò all’alfabeto latino 14 nuovi caratteri, ciascuno dei quali ne indicava uno particolare.

Una bambina durante una dimostrazione del funzionamento dell’ITA nella scuola di South Harrow, 8 novembre 1961. “One”, cioè uno, è scritto “wun”. (Evening Standard/Getty Images)
Per Blackwell i caratteri speciali dell’ITA erano «quasi dei geroglifici». Per fare qualche esempio, le due “o” di book (libro) erano indicate da un simbolo che ricorda una “w” arrotondata, mentre la “a” di tape (nastro) era scritta con il grafema latino “æ”. Il simbolo “th” con una t allungata indicava il suono di three (tre), mentre il “th” con la t al contrario quello dell’articolo the.
Nell’idea di Pitman l’ITA era un sistema grafico più intuitivo: non doveva rimpiazzare l’alfabeto e la grafia esistenti, bensì facilitare la lettura dell’inglese all’inizio dell’apprendimento. Secondo il suo progetto, infatti, dopo aver imparato l’ITA i bambini sarebbero stati in grado di passare all’alfabeto e all’ortografia tradizionale più rapidamente. L’ITA non era lo standard, ed erano i presidi o i singoli docenti a decidere se insegnarlo, ma per un certo periodo ebbe un buon successo. Nel 1962 veniva insegnato in 75 scuole in tutto il Regno Unito, e nel giro di pochi anni era proposto in almeno 140 provveditorati su un totale di 158, oltre che in alcune scuole in Australia e Stati Uniti.
In base ai primi riscontri degli insegnanti, le bambine e i bambini che imparavano l’ITA sembravano più bravi a leggere e a scrivere rispetto a quelli a cui veniva insegnato l’alfabeto latino. Ne è convinta Toni Brocklehurst, che lo insegnò per quattro anni: sostiene che servisse in particolare a dar più sicurezza agli alunni che venivano da contesti più svantaggiati, e che non avevano libri a casa. Uno studio del 1966 tuttavia mostrò che i progressi iniziali scemavano già attorno agli otto anni, l’età attorno alla quale poi si doveva passare a studiare l’alfabeto tradizionale.
C’erano poi altri problemi, come il fatto che l’ITA ignorava gli accenti e le differenze di pronuncia regionali, e che non conoscendolo i genitori non avevano idea di cosa stessero imparando i figli.
Mike Alder, che ha 58 anni e imparò l’ITA all’inizio degli anni Settanta, ha descritto la transizione come un «tradimento». Un po’ come Judith Loffhagen, oggi deve fare costante affidamento sui sistemi automatici di controllo dello spelling, e crede che l’ITA gli abbia creato problemi sia nei voti a scuola che nella carriera. Dopo l’uscita dell’articolo di Loffhagen, altre persone inglesi hanno raccontato le loro testimonianze sempre al Guardian: tutte esprimono frustrazioni simili.

Una tabella che indica i caratteri dell’ITA in relazione all’alfabeto fonetico e gli esempi di suoni che indicano (Wikimedia Commons)
Il professor Dominic Wyse, esperto di formazione alla University College London, ha detto al Guardian che oggi l’ITA è considerato «un esperimento che semplicemente non ha funzionato». Il problema era proprio questa transizione, in cui di fatto i bambini dovevano imparare daccapo il modo in cui funziona l’inglese, più confusi che all’inizio.
Rhona Stainthorp, che studia alfabetizzazione all’Università di Reading, ha poi ricordato che Pitman non era un pedagogo, e anche se credeva di aver avuto una buona idea per semplificare i processi di apprendimento non aveva alcuna formazione su quali fossero i metodi opportuni per farlo. Per Stainthorp comunque non ci sono prove sufficienti per dire che in generale abbia avuto un impatto negativo sulle capacità di spelling, che sono influenzate da una serie di fattori, tra cui la qualità dell’insegnamento, l’attitudine personale e il sostegno dei genitori.
L’ITA non ebbe mai una diffusione e un successo tali da giustificare studi nazionali, e il fatto che sia stato abbandonato senza tante spiegazioni o ricerche approfondite è uno degli altri motivi per cui le persone che lo avevano studiato lo ricordano con così tanta frustrazione. Per Sarah Kitt, che lo imparò a fine anni Sessanta, dopo che smise di essere insegnato nessuno si preoccupò delle difficoltà che avevano affrontato le persone come lei. Judith Loffhagen si lamenta inoltre del fatto che l’ITA le fosse stato insegnato senza che né lei né i suoi genitori fossero stati informati sul metodo, e senza che potessero opporsi: «Il risultato è che cinquant’anni dopo stiamo ancora patendo».
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