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  • Martedì 12 agosto 2025

Il lavoro impossibile di Anas al Sharif

Il giornalista di Al Jazeera ucciso domenica da Israele era uno dei più conosciuti della Striscia: da tempo era diventato un obiettivo dell’esercito israeliano

Una persona prega davanti a un giubbetto con la scritta "Press" durante i funerali di Anas al Sharif e dei suoi colleghi, 11 agosto 2025
Una persona prega davanti a un giubbetto con la scritta "Press" durante i funerali di Anas al Sharif e dei suoi colleghi, 11 agosto 2025 (Ramez Habboub/ABACAPRESS.COM)
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Dopo aver ucciso con un bombardamento mirato il giornalista di Al Jazeera Anas al Sharif, Israele ha rivendicato l’attacco: «COLPITO», ha scritto sui social media l’esercito israeliano. Al Sharif è stato ucciso mentre si trovava in una tenda nella città di Gaza assieme ad altre sei persone, di cui altri quattro giornalisti. Pochi minuti prima di essere ucciso aveva pubblicato su X un video (forse ripreso dalla stessa tenda) in cui mostrava i bombardamenti in corso.

Uccidere un giornalista è considerato un crimine di guerra. Secondo il Committee to Protect Journalists, un’organizzazione che si occupa di sicurezza dei reporter nel mondo e libertà di stampa, i giornalisti palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra sono 192; di questi almeno 184 sono stati uccisi in bombardamenti e attacchi israeliani. Ma è molto raro che Israele ammetta di esserne responsabile, e quasi sempre parla di incidenti ed errori. Questa è invece la prima volta che rivendica così apertamente l’uccisione di una persona che lavorava nei media, sostenendo che al Sharif non fosse un vero giornalista ma «un terrorista che recitava da giornalista».

Anas al Sharif aveva 28 anni ed era nato nel campo profughi di Jabalia, nella Striscia di Gaza. La sua storia è emblematica delle condizioni impossibili in cui lavorano i giornalisti palestinesi a Gaza, gli unici dai quali sia possibile avere informazioni dirette visto che Israele non consente ai media internazionali di entrare nella Striscia, con l’eccezione di brevi tour strettamente controllati dall’esercito, in cui i giornalisti possono raccontare solo quello che gli è concesso di vedere. È successo di recente quando alcuni giornalisti occidentali hanno potuto accompagnare gli aerei che hanno lanciato cibo e generi di prima necessità sulla Striscia, ma hanno quasi tutti dovuto sottostare a regole rigide su cosa fotografare.

Al Sharif si era laureato in Giornalismo radiotelevisivo all’Università di al Aqsa, e aveva cominciato a lavorare come giornalista nel nord della Striscia per media locali. Dopo il 7 ottobre 2023 e l’inizio della guerra, aveva cominciato a collaborare stabilmente con Al Jazeera, fino a essere riconosciuto come un giornalista dell’emittente (su Al Jazeera è definito «corrispondente»).

In questi mesi al Sharif era diventato uno dei giornalisti più noti tra quelli che lavoravano da Gaza. Era conosciuto soprattutto nel mondo arabo perché i suoi servizi televisivi erano esclusivamente in arabo, ma aveva centinaia di migliaia di follower sui social media e molti dei suoi lavori giornalistici erano circolati in tutto il mondo. Nel 2024, collaborando con Reuters, aveva fatto parte del team che aveva vinto il premio Pulitzer per la miglior foto di news: una delle sue fotografie della distruzione dei bombardamenti israeliani a Gaza, pubblicate dall’agenzia, era stata selezionata per il premio.

Tra le altre cose a gennaio era circolato molto un suo video in cui annunciava un accordo di cessate il fuoco tra Hamas e Israele togliendosi con sollievo l’elmetto e il giubbetto antiproiettile. Israele fece poi fallire l’accordo nel giro di un paio di mesi.

Al Sharif era rimasto uno degli ultimi giornalisti ancora attivi nel nord della Striscia e nella zona della città di Gaza. Negli scorsi giorni, prima della sua uccisione, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per la libertà d’espressione lo aveva definito «l’ultimo giornalista di Al Jazeera sopravvissuto nel nord della Striscia», dopo che vari suoi colleghi erano stati uccisi nei bombardamenti.

Israele aveva cominciato a criticare al Sharif nell’ottobre dell’anno scorso. L’esercito aveva sostenuto di aver trovato a Gaza dei documenti che provavano che al Sharif e altri giornalisti di Al Jazeera fossero in realtà dei miliziani di Hamas che interpretavano il ruolo di giornalisti. In particolare accusava al Sharif di essere stato arruolato nel 2013 (quando aveva 16 anni) e di essere stato il comandante di una squadra che si occupava del lancio di razzi contro il territorio israeliano, con uno stipendio di 200 dollari al mese.

È impossibile provare se quei documenti siano veri o falsi. Sono screenshot di presunti archivi di Hamas che presentano nomi e numeri di matricola, ma non mostrano niente che possa consentire a un osservatore esterno di verificarne l’autenticità. I documenti di Israele, inoltre, non dicono che rapporti al Sharif abbia avuto con l’ala militare di Hamas dopo il 2017 (l’ultima volta in cui è citato). Al Jazeera e al Sharif hanno sempre negato ogni affiliazione diretta con Hamas.

Sui social media (soprattutto sul suo canale Telegram) al Sharif ha più volte pubblicato messaggi di apprezzamento per il gruppo e per i suoi miliziani, compreso un post in cui ha esultato per l’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele.

Una manifestazione in Siria per commemorare Anas al Sharif, 11 agosto 2025

Una manifestazione in Siria per commemorare Anas al Sharif, 11 agosto 2025 (EPA/AHMAD FALLAHA)

Il Committee to Protect Journalists ha accusato più volte Israele di avere condotto campagne diffamatorie contro i giornalisti palestinesi per danneggiare la loro credibilità. Dall’anno scorso il governo israeliano ha vietato ad Al Jazeera di operare in Israele e in Cisgiordania, e ne ha chiuso tutte le sedi.

Una parte consistente delle recriminazioni che Israele aveva contro al Sharif avevano esplicitamente a che fare con il lavoro giornalistico che svolgeva nella Striscia di Gaza.

Alla fine del 2023, pochi mesi dopo l’inizio della guerra, al Sharif aveva detto di aver ricevuto più volte telefonate da funzionari dell’esercito israeliano che gli intimavano di smettere di fare lavoro giornalistico a Gaza e di lasciare il nord della Striscia. Avrebbe anche ricevuto dei messaggi vocali su WhatsApp in cui gli veniva comunicato di volta in volta il luogo in cui si trovava, per fargli capire che era sotto controllo.

Le critiche di Israele contro al Sharif si erano fatte di nuovo intense a fine luglio. Avichay Adraee, uno dei portavoce dell’esercito israeliano che si occupa della comunicazione in lingua araba, aveva pubblicato sui social media una serie di post in cui lo attaccava per il suo lavoro giornalistico. In un post pubblicato il 23 luglio, Adraee aveva sostenuto che i servizi televisivi con cui al Sharif mostrava i civili di Gaza gravemente malnutriti erano falsi come «produzioni di Hollywood».

Il giorno dopo Adraee aveva pubblicato un altro post in cui aveva accusato al Sharif di usare il suo ruolo da giornalista per «coprire la verità documentata» su quello che sta succedendo a Gaza.

Questi post (e altri contro Al Jazeera) sono stati pubblicati in un periodo specifico: da settimane il governo israeliano di estrema destra del primo ministro Benjamin Netanyahu sta conducendo una campagna mediatica per cercare di smentire le notizie sulla grave malnutrizione sofferta dalla popolazione di Gaza. Netanyahu ha più volte detto, mentendo, che a Gaza non c’è nessuna carestia, e che le notizie che la descrivono sono false. La situazione di grave malnutrizione della popolazione di Gaza è in realtà confermata unanimemente da ong, media e da istituzioni internazionali.

I funerali di Anas al Sharif e dei suoi colleghi, 11 agosto 2025

I funerali di Anas al Sharif e dei suoi colleghi, 11 agosto 2025 (Ramez Habboub/ABACAPRESS.COM)

Dopo tutti questi attacchi e queste minacce, al Sharif era consapevole di essere in pericolo. Alla fine di luglio il Committee to Protect Journalists aveva chiesto per lui una qualche forma di protezione internazionale, e aveva fatto circolare sui social media l’hashtag #ProtectAnasAlSharif. Anche Amnesty International aveva chiesto che al Sharif fosse in qualche modo protetto dalla minaccia di essere ucciso da Israele. Pochi giorni dopo la sua tenda è stata bombardata.

Dopo l’uccisione Israele ha pubblicato altri elementi con l’intento di dimostrare la vicinanza tra al Sharif e Hamas. Tra questi ci sono alcune foto che lo ritraggono assieme a Yahya Sinwar, l’ex capo militare di Hamas nella Striscia ucciso da Israele nell’ottobre del 2024. Le foto sembrano autentiche, ma non si sa quando siano state scattate (tutte le persone ritratte hanno in mano una mascherina: è possibile che risalgano al periodo della pandemia da coronavirus).

Prima dell’inizio della guerra, e in misura minore anche dopo, per un giornalista a Gaza avere contatti con membri di Hamas era una parte normale e necessaria del mestiere. Hamas governava la Striscia con metodi autoritari e brutali, e aveva una capillare organizzazione civile. Nella Striscia di Gaza l’informazione non era libera, e il lavoro dei giornalisti era controllato e censurato: lavorare nella Striscia controllata da Hamas significava avere contatti con il gruppo, compresi i suoi leader, ed evitare di raccontare informazioni che li mettessero in difficoltà.

Al Sharif lavorava in un contesto in cui le relazioni con Hamas sono una necessità e le minacce di Israele violente e quotidiane: una condizione impossibile e comune a quella di chiunque provi a fare lavoro giornalistico nella Striscia, fornendo un servizio essenziale e prezioso mentre i media internazionali sono costretti a guardare da fuori.