Sopravvivere a una freccia nel cervello
Un recente caso di cronaca porta a chiedersi come il cervello possa essere così delicato e resistente al tempo stesso

A inizio agosto vicino ad Ancona un uomo di 64 anni è stato trovato in casa vivo e vigile, per quanto in uno stato alterato, con una freccia conficcata nel cranio. Secondo le prime ricostruzioni si era procurato la ferita con una balestra un paio di giorni prima ed era riuscito a sopravvivere, nonostante la gravità della ferita che aveva interessato alcune aree del cervello. L’uomo è stato sottoposto a una lunga operazione per rimuovere la freccia e rimane in condizioni gravi, ma la sua storia si aggiunge a una lunga lista di casi clinici in cui il cervello ha mostrato di essere un organo delicatissimo e al tempo stesso più resistente e versatile di quanto si possa immaginare.
Il primario di neurochirurgia dell’ospedale di Ancona che ha seguito il caso ha detto al Corriere della Sera che la freccia aveva attraversato il cranio dalla fronte alla nuca: «Eppure, il paziente era arrivato cosciente, con gli occhi aperti. Blaterava parole sconnesse, ma parlava. Due giorni senza mangiare né bere, da solo in casa. La freccia gli impediva perfino di girare la testa». Secondo i giornali locali, alcune persone lo avevano cercato al telefono, e non avendo ricevuto risposta dopo più tentativi avevano chiamato i soccorsi. È stato trovato a letto e le indagini dovranno stabilire se si sia trattato di un incidente o di un gesto volontario.
Il gruppo di medici che ha seguito il paziente ha esaminato una TAC per studiare i vasi e le strutture del cervello attraversate dalla freccia, in modo da pianificare l’intervento. La difficoltà in sé non era rimuoverla, ma farlo in modo che non si producessero emorragie nella scatola cranica, che avrebbero potuto causare seri danni o la morte del paziente. Come avviene spesso con le ferite penetranti, la freccia aveva fatto da tappo, fermando le fuoriuscite di sangue. In circa due ore, è stata progressivamente sfilata, avendo cura nel frattempo di trattare i vasi sanguigni lacerati in modo che non producessero emorragie.
Buona parte delle aree del cervello attraversate dalla freccia erano “non eloquenti” o “ridondanti”, termini che si usano per indicare porzioni del tessuto cerebrale cui non sono associate funzioni neurologiche critiche evidenti o note (questa distinzione è ancora discussa, per via della difficoltà nel mappare le aree del cervello). Detta più semplicemente, sono parti del cervello che se vengono lesionate non portano a sintomi neurologici gravi e quindi non compromettono le funzioni motorie, sensoriali e cognitive. Sono spesso aree periferiche del cervello o riconducibili a parti specifiche, come il lobo temporale anteriore.

Rappresentazione schematica di un cervello umano (Wikimedia)
Le aree non eloquenti sono studiate da tempo e sono descritte spesso negli studi di neurochirurgia, perché danno la possibilità di fare interventi invasivi con rischi contenuti per i pazienti rispetto ad altre zone del cervello. Un tumore da asportare in una di queste aree, per esempio, può essere operato in modo più radicale proprio perché si ritiene che ci siano minori rischi neurologici. Allo stesso modo, una ferita penetrante – causata da un coltello, un proiettile o una freccia come nel caso di Ancona – in quelle aree dà qualche margine in più per la conservazione delle funzioni neurologiche.
Come suggerisce il nome, le aree ridondanti sono circuiti cerebrali duplicati o comunque compensabili: se uno di loro viene danneggiato, altri possono assumere la medesima funzione e compensare quindi quella perdita. È stato per esempio osservato che alcune funzioni linguistiche possono “spostarsi” da un emisfero all’altro in seguito a un ictus, cioè a una mancanza di afflusso di sangue o a un’emorragia che ha danneggiato parte del cervello.
La definizione di organo fa sì che spesso si pensi al cervello come a una singola unità che svolge una determinata funzione, ma in realtà è un organo estremamente flessibile e adattabile: se così non fosse, non potrebbe acquisire nuove funzioni e affinare quelle che già riesce a svolgere nel corso della nostra vita. La plasticità cerebrale è sia di tipo funzionale, quando una parte assume una funzione svolta in precedenza da un’altra, sia strutturale, quando modifica la struttura delle connessioni tra i neuroni (per esempio quando impariamo a suonare uno strumento, sviluppando nuove capacità di coordinazione).
È la plasticità a rendere possibile, entro certi limiti, il recupero di alcune funzioni dopo un ictus o un trauma grave, ma è anche la caratteristica che rende più difficile lo studio del cervello e anche la comprensione di alcuni problemi neurologici. Un’emorragia di lieve portata può avere conseguenze molto gravi, anche letali, mentre magari un corpo estraneo che attraversa da parte a parte il cranio ne ha di minori, pur nella gravità di un trauma di questo tipo.

Risonanza magnetica all’encefalo (Wikimedia)
Il caso più noto nella storia medica è quello di Phineas Gage, un operaio statunitense che nel 1848 sopravvisse a un grave incidente sul lavoro. Aveva 25 anni e stava lavorando alla costruzione di una ferrovia, quando un’esplosione gli fece conficcare un tondino di metallo (di 3 centimetri di diametro) nella testa dal basso verso l’alto. Gage riuscì a riprendersi quasi del tutto in un paio di mesi e tornò a condurre una vita normale, anche se i medici e diversi conoscenti notarono un cambiamento della sua personalità.
In tempi più recenti un caso che ha suscitato interesse è stato quello dell’ex deputata statunitense Gabrielle Giffords, ferita gravemente in una sparatoria mentre partecipava a un comizio nel 2011 in Arizona. Un proiettile le attraversò il cranio dalla fronte alla nuca, causando un serio danno in uno dei due emisferi cerebrali. Giffords fu operata per rimuovere alcuni frammenti del proiettile e le parti del tessuto cerebrale danneggiate. Superato un periodo di coma indotto intraprese una lunga fase di riabilitazione che le consentì di recuperare molte funzioni neurologiche, anche se ancora oggi ha episodi di afasia, una condizione che riduce la sua capacità di esprimere a voce i propri pensieri.
Al di là dei singoli casi, importanti per comprendere le capacità di recupero, ma meno significativi da un punto di vista statistico, negli anni sono stati realizzati diversi studi su più persone per capire gli esiti dei traumi di questo tipo. Una ricerca svolta su 342 reduci statunitensi della guerra in Vietnam, che avevano riportato gravi ferite penetranti, ha indicato che solo il 15 per cento aveva avuto una perdita di coscienza prolungata. Oltre la metà rimase vigile o ebbe una perdita momentanea di coscienza anche nel caso di danni cerebrali molto evidenti. Il recupero fu variabile e furono segnalati diversi casi di afasia, legati sempre alle aree che erano state interessate dai traumi.
Per contro, ci possono essere casi in cui gli effetti traumatici non sono evidenti, eppure si sviluppano sintomi. È il caso delle commozioni cerebrali, cioè di quegli incidenti in cui si prende un forte colpo alla testa. Nella scatola cranica, il cervello è immerso in un liquido in modo che possa galleggiare e che la sua parte inferiore non venga schiacciata dal suo stesso peso. Un colpo improvviso, specialmente se in movimento, può far sì che il cervello vada a sbattere contro le strutture più rigide della scatola cranica, con danni che possono essere variabili e non sempre semplici da osservare con esami come TAC e risonanze magnetiche.
Delle commozioni cerebrali si è parlato molto negli ultimi anni in seguito ai numerosi casi di danni neurologici segnalati da giocatori di football americano, uno sport dove ci sono spesso scontri ad alta velocità tra i giocatori. Gli studi sugli effetti di questi traumi in quello e altri sport sono ancora in corso, ma si ritiene che contusioni cerebrali microscopiche possano causare dolore cronico e danni strutturali ai neuroni e alle loro connessioni. Ci possono essere danni permanenti che si riflettono negativamente sulla qualità della vita, con il rischio di un peggioramento in tarda età.
Negli ultimi decenni la ricerca scientifica ha permesso di scoprire molte cose sul funzionamento del cervello, ma la sua grande complessità fa sì che ancora oggi sfuggano molti dei suoi principi di funzionamento e di guarigione in seguito ai traumi. Nella fase acuta, cioè quella in cui il problema medico è più evidente e urgente, è impossibile fare previsioni con certezza sull’evoluzione di un trauma sia per quanto riguarda le possibilità di recupero sia per l’insorgenza di nuovi sintomi. Casi simili precedenti possono fornire qualche indizio, ma ogni cervello, come del resto ogni persona, è diverso da un altro e ci sono moltissime variabili da considerare, compresa l’età del paziente e il suo stato generale di salute.



