Giorgia Meloni non è più indagata per la liberazione del capo della polizia libica Almasri
Restano indagati i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, per i quali probabilmente verrà chiesta l'autorizzazione a procedere

Giorgia Meloni non è più indagata per la liberazione del capo della polizia libica Njeim Osama Elmasry, conosciuto come Almasri. Era stato arrestato a Torino a metà gennaio, in forza di un mandato emesso dalla Corte penale internazionale, il principale tribunale per crimini di guerra e contro l’umanità: è accusato di omicidi, torture, stupri e altri gravi crimini. Ma solo due giorni dopo era stato liberato e rimpatriato in Libia su decisione del governo italiano, che con il governo di Tripoli ha un buon rapporto soprattutto per i modi controversi con cui limita i flussi migratori. Il rilascio era avvenuto in modo del tutto irrituale, e ha creato un caso politico in Italia e un caso giuridico con la stessa Corte.
Meloni era indagata per i reati di favoreggiamento e peculato, ma la sua posizione è stata archiviata dal tribunale dei ministri, un particolare collegio di giudici che si occupa di indagare i membri del governo per reati compiuti nell’esercizio delle loro funzioni: secondo il provvedimento del tribunale non è possibile stabilire con certezza quanto fosse stata preventivamente informata della liberazione e quindi quanto e come avrebbe contribuito all’illecito.
Restano invece indagati il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, quello della Giustizia Carlo Nordio, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che erano tutti coinvolti nella procedura di rilascio di Almasri. Diversi elementi suggeriscono che per loro tre dovrebbe essere chiesta l’autorizzazione a procedere, cioè la procedura con cui il tribunale dei ministri chiede al parlamento se può proseguire le indagini contro un ministro (o un presidente del Consiglio) e quindi anche rinviarlo a giudizio.
In parte lo si ricava per logica: i ministri coinvolti non hanno ricevuto lo stesso atto con cui è stato comunicato a Meloni che non è più indagata. In parte lo si ricava dall’atto stesso che ha ricevuto Meloni, dove si dice esplicitamente che per gli altri tre indagati «si procede separatamente» e si descrive la loro condotta come un «disegno criminoso».
Meloni ha criticato il contenuto del provvedimento perché a suo dire «è una tesi palesemente assurda» che «due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all’intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte». «Rivendico che questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida: ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata», ha scritto.
Le indagini erano iniziate a fine gennaio. Dopo aver ricevuto gli atti dalla procura, il tribunale dei ministri ha 90 giorni di tempo a disposizione (ma sono possibili proroghe) per decidere se archiviare il procedimento (com’è successo con le accuse a Meloni), inviare gli atti a una diversa autorità giudiziaria se ritiene che il reato potrebbe essere stato compiuto al di fuori delle funzioni ministeriali, oppure proseguire l’indagine. L’autorizzazione a procedere infatti non manda automaticamente a processo, come nel caso del rinvio a giudizio nei procedimenti ordinari, ma autorizza il proseguimento delle indagini.
Nel caso di Nordio, Piantedosi e Mantovano, sarà una delle due camere a dover decidere qualora venisse chiesta l’autorizzazione a procedere. L’articolo 9 della legge costituzionale prevede che la camera competente possa negare l’autorizzazione se ritiene che il ministro o la ministra indagata abbia agito «per la tutela di un interesse dello Stato», «ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo».
La valutazione è insomma politica, ed è quindi molto improbabile che la maggioranza di destra in parlamento dia l’autorizzazione a procedere contro due ministri e un sottosegretario che fanno parte del governo che sostiene.
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