Ai palestinesi della Striscia rimangono pochi posti dove stare
Molte città non esistono più: restano metà città di Gaza, due campi profughi, qualche chilometro di spiaggia

Lunedì gli attacchi e le operazioni di terra dell’esercito israeliano si sono concentrate su Deir al Balah, città nel centro della Striscia di Gaza dove finora i soldati israeliani non erano entrati in modo massiccio e che era stata bombardata in modo meno sistematico e devastante di altre zone. Deir al Balah era anche uno degli ultimi posti dove i quasi 2 milioni di palestinesi della Striscia potessero pensare di abitare o trovare rifugio: Israele controlla ormai l’85 per cento del territorio, considerandolo zona militare. Sono sempre meno i posti in cui i palestinesi sono autorizzati a stare.
Nel fine settimana l’esercito israeliano ha comunicato un ordine di evacuazione per tutta la zona meridionale di Deir al Balah, un’area densamente popolata. Sin dall’inizio della guerra gli ordini di evacuazione precedono bombardamenti e operazioni di terra: l’esercito comunica le aree da sgomberare e ritiene che i civili che non le lasciano lo facciano “a loro rischio”, o peggio possano essere considerati potenziali nemici.
Con il dimezzamento dell’area disponibile a Deir al Balah, le zone della Striscia in cui la popolazione palestinese può stare rimangono le parti sud e ovest della città di Gaza (quelle a nord e a est sono soggette a ordini di evacuazione); i campi profughi di al Nuseirat e al Zawayda, qualche chilometro a nord di Deir al Balah, a 3-4 chilometri l’uno dall’altro e grandemente sovraffollati; l’area costiera di al Mawasi, nel sud.
Sono tutte zone che comunque Israele bombarda con un certa frequenza, compresa al Mawasi, nonostante la definisca “safe zone”, zona sicura. I volantini e gli annunci del fine settimana dicevano ai residenti di Deir al Balah di spostarsi proprio ad al Mawasi, dove Israele sembra voler concentrare la gran parte dei palestinesi.
Prima della guerra a Deir al Balah vivevano circa 80mila persone, nell’ultimo anno e mezzo sono diventate molte di più. Ci sono anche molte sedi di ong, e uffici e residenze del personale ONU, anche internazionale.
Forse anche per questo finora i bombardamenti erano stati meno intensi e c’è stata un’unica operazione militare di terra, circa un anno fa, per recuperare degli ostaggi. Al momento non è chiaro se l’attuale operazione sia destinata a durare, se l’esercito voglia occupare l’area e se vorrà poi procedere anche nell’altra parte della città. I testimoni degli attacchi di lunedì li definiscono «intensi e brutali».

Una stazione di servizio distrutta a Deir al Balah (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Al Mawasi era invece un piccolo centro costiero (9mila abitanti), che in questi mesi si è trasformato in un enorme accampamento, perlopiù sulla spiaggia e nelle sue vicinanze: i palestinesi dicono che al momento in tutta l’area è molto difficile trovare uno spazio per collocare nuove tende. Le tende di fortuna solo quasi l’unica soluzione abitativa rimasta a disposizione, in una zona in cui peraltro manca ogni altro servizio di base.

La costruzione di una tenda a al Mawasi (AP Photo/(AP Photo/Jehad Alshrafi)
Le altre città della Striscia non sono più raggiungibili e in gran parte non esistono più: è il caso di Khan Yunis, che prima della guerra era la seconda città per popolazione; o di Rafah, verso il confine sud, dove nella prima metà del 2024 si era concentrato oltre un milione di persone, quando sui social circolava lo slogan “All Eyes on Rafah” (“Tutti gli occhi su Rafah”). Rafah e Khan Yunis sono state quasi completamente distrutte, così come moltissimi centri minori sotto il controllo dell’esercito israeliano.
Ai danni provocati dai bombardamenti negli ultimi mesi si sono aggiunte distruzioni sistematiche degli edifici ancora in piedi con esplosioni controllate, bulldozer e scavatrici.

Parte del campo sulla spiaggia di al Mawasi (AP Photo/Jehad Alshrafi)
Quest’opera di distruzione è stata documentata con video provenienti dall’interno della Striscia e verificati da media internazionali, ma in parte anche rivendicata da Israele, che sostiene di procedere per eliminare «strutture di Hamas» o per cercare militanti di Hamas: è la giustificazione usata per quasi tutte le operazioni di questi mesi.
A luglio il ministro della Difesa israeliano Israel Katz aveva parlato di un piano per creare sulle rovine di Rafah quella che ha definito una «città umanitaria», ossia un enorme campo profughi che dovrebbe ospitare inizialmente 600mila palestinesi.
Da tempo il progetto a lunga scadenza di Israele sembra quello di concentrare e confinare nel sud della Striscia tutta la popolazione. Per questo tre dei quattro centri di distribuzione di cibo della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf) sono a sud di al Mawasi, nell’area dove c’era Rafah, verso il mare. La Ghf è stata fondata su impulso di Israele, è attualmente l’unica autorizzata a distribuire cibo e nei suoi siti di distribuzione sono frequenti le uccisioni di palestinesi in coda da parte dell’esercito israeliano, che ha funzioni di “sorveglianza”.

Persone in coda per il cibo ad al Nuseirat (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Il quarto sito di distribuzione è vicino ai campi di al Nuseirat e al Zawayda: come altri campi profughi a Gaza, sono strutture che nel corso dei decenni sono diventate delle città, con abitazioni, uffici e negozi. Dall’ottobre del 2023 hanno però ospitato molti nuovi sfollati da altre zone della Striscia e sono stati parzialmente distrutti dai bombardamenti. Più a nord l’unica area non sotto il controllo militare israeliano o sottoposta a ordini di evacuazione è metà della città di Gaza, circondata da aree militari e di fatto tagliata fuori da ogni distribuzione di cibo.



