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  • Venerdì 4 luglio 2025

Il primo capitolo di “L’anniversario” di Andrea Bajani

Il romanzo che ha vinto il Premio Strega racconta la storia di un figlio che ha interrotto i legami con i suoi genitori

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L’anniversario di Andrea Bajani, il romanzo che ha vinto la 79esima edizione del Premio Strega, il più importante riconoscimento letterario italiano e quello che più di ogni altro incide sulle vendite dei libri, è lungo 128 pagine e pubblicato da Feltrinelli. Racconta la storia di una famiglia infelice, con un padre oppressivo e violento e una madre succube di lui. Il titolo si riferisce al decimo anniversario del giorno in cui il narratore e protagonista ha visto per l’ultima volta i propri genitori, e scelto di separarsi definitivamente da loro. Bajani ha 49 anni, è autore di una ventina di libri (romanzi, raccolte di poesie e saggi) ed era già stato candidato al Premio Strega nel 2021 con il suo romanzo precedente, Il libro delle case.

«È un romanzo avvincente e originalissimo, che colpisce chi legge come un pugno nella testa e nella pancia», ha scritto l’ex vincitore del premio Emanuele Trevi presentando il romanzo di Bajani allo Strega. Lo scrittore francese Emmanuel Carrère ha definito la voce narrante del romanzo  «scandalosamente calma», mentre secondo la direttrice del Salone del Libro di Torino, Annalena Benini, «Bajani ha trovato le parole per far uscire dall’ombra e far esistere per sempre la voce di una madre che parla con suo figlio, seppur per poco». Pubblichiamo il primo capitolo, per chi vuole farsi un’idea.

***

L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta di casa per salutarmi. Dopo di che ha aspettato di vedermi sparire nell’imbuto delle scale prima di chiuderla. Mia madre non è mai stata da gesti di commiato, principalmente perché era sopraffatta da una forma di timidezza molto prossima alla negazione di sé. Il che, nel concreto, le rendeva impossibile ogni retorica: in nessun modo avrebbe potuto trasformare in una messa in scena, sia pure temporanea, ciò che lei stessa considerava tanto marginale. Per questa stessa ragione, credo, non si riconosceva il diritto di certificare l’inizio o la fine di nulla. Era alle spalle di mio padre quando la porta si apriva, ed era alle spalle di mio padre quando, al termine di ogni mia visita, il battente li inghiottiva dentro casa.

Eppure quel giorno fu lei a salutarmi per ultima, sola oltre la soglia, all’imbocco delle scale. Più che congedarmi, in qualche modo mi seguì. Con la visuale degli anni che sono passati da allora, mi verrebbe da dire che non le era possibile lasciarmi andare. È un dato di fatto che mentre io guadagnavo l’uscita retrocedendo, coprendo ogni passo con parole fumogene, mia madre avanzava con analogo passo. Vista con gli occhiali della scrittura, la scena assume le sembianze di una danza, un piede di uomo all’indietro e uno di donna a rincalzo, un altro passo di figlio, ancora uno di madre, fino all’uscita.

Le ultime parole che ho sentito pronunciare a mia madre non sono state un’affermazione ma una domanda. Il che, ancora una volta, era in netto contrasto con un’attitudine all’accettazione più che alla richiesta, alla sottomissione più che alla pretesa, al dare conto più che chiederne agli altri. “Tornerai a trovarci?” mi ha chiesto avanzando verso di me mentre io mi sfilavo da casa. Credo mi abbia guardato negli occhi, ma è più una supposizione che un ricordo appannato, visto che invece io non la guardavo.

La sua domanda era del tutto incongrua, non c’era alcuna ragione per farla. Regolarmente, all’incirca una volta ogni due settimane, guidavo per settanta chilometri per trascorrere alcune ore con i miei genitori, solitamente a cavallo del pranzo. Finito di mangiare, dopo il caffè, riprendevo la macchina e tornavo a Torino. Lo avevo fatto per molto tempo, da quando me n’ero andato di casa a vent’anni usando il pretesto consueto dell’università. Di fronte a quella domanda, avevo quarantun anni. Ciò significa che erano ventun anni che compivo quel gesto di andarli a trovare con una cadenza che non potrebbe non apparire di routine. Non c’era quindi alcuna ragione per mettere in forse il fatto che, dopo quel giorno, si sarebbe ripetuto ancora e ancora e per sempre. Per di più io ero un figlio e loro le persone che mi avevano dato la vita, il che era condizione sufficiente per non nutrire alcun dubbio.

Aggiungerei che non solo la domanda era palesemente incongrua dal punto di vista della contingenza, ma neppure io me l’ero mai posta, né avevo mai formulato con me stesso un qualche pensiero al riguardo. “Tornerai a trovarci?” mi chiese. A quella domanda non c’è mai stata una risposta. Il “Ma certo” che ho lasciato sul pianerottolo fu pronunciato soltanto perché succedesse qualcosa, perché mia madre mollasse la presa e io potessi infilare le scale in discesa. Non era una risposta, semplicemente perché quella domanda, posta da una mamma a un figlio, non poteva essere pronunciata.

Eppure mia madre la fece, e fu per istinto. Dopo tanti anni passati a sottrarsi, a non esistere né per sé né per i figli, a pulire, servire, obbedire al marito in casa e nel letto, a eseguire il poco o niente che mio padre si aspettava o pretendeva da lei, finì con un gesto da madre. Sentì ciò che dentro suo figlio era già successo senza che lui lo sapesse.

Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.

© 2025 Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano