Per chi non vede, navigare su internet è ancora molto faticoso
Siti e app poco accessibili rendono difficili o impossibili azioni anche banali: ma un nuovo regolamento europeo potrebbe cambiare qualcosa
di Viola Stefanello

Ogni volta che Francesco è al computer e vuole leggere qualcosa sul web, deve zoomare la pagina fino al 200 per cento. È il modo più semplice che ha trovato per ovviare al fatto che i caratteri utilizzati da gran parte dei siti internet sono troppo piccoli per lui, che è una persona fortemente ipovedente: nella classica scala in decimi che serve a indicare la qualità della visione senza lenti correttive, Francesco vede meno di un decimo. Sullo smartphone ha impostato invece uno zoom di sistema che fa più o meno lo stesso lavoro, ingrandendo automaticamente gli elementi delle app che visita: testi, immagini, pulsanti. Sono soluzioni che gli servono per accedere quando vuole ai contenuti e ai servizi che preferisce, senza dover chiedere necessariamente aiuto a una persona normovedente. A volte funzionano bene. Altre volte, non proprio.
L’interfaccia di Instagram, per esempio, è refrattaria allo zoom di sistema di Android: in sostanza, quasi ogni elemento all’interno dell’app rimane della grandezza standard, oppure viene ingrandito di poco. «I messaggi sono un po’ più grandi, ma tutto il resto lo vedo come lo vede una persona qualsiasi. E questo vuol dire che non riesco mai a leggere i commenti o le descrizioni delle foto. Lo scorro comunque un pochettino, ma per me è un social network inutilizzabile. Per non parlare di TikTok: è peggio che andar di notte».
Altre app rispondono allo zoom di sistema «ingrandendo tutto a casaccio: i pulsanti vengono mezzi nascosti, spostati, verticalizzati». Spesso, per esempio, per usare l’app dell’home banking deve chiedere aiuto alla fidanzata, aspettare di potervi accedere da desktop o rinunciare a usare il servizio digitale e andare fisicamente in banca. «E mi dispiace, perché mi stai tagliando fuori da un vivere comune», dice. «Non è così che dovrebbe funzionare».

Il commissario federale per i disabili tedesco, Jürgen Dusel, fortemente ipovedente, legge uno schermo zoomato (Nina Hansch/dpa)
Da anni il gruppo Web Accessibility Initiative stila una lista di funzionalità che un sito internet dovrebbe implementare per essere considerato pienamente accessibile dalle persone disabili; la maggior parte delle funzionalità riguarda esplicitamente i problemi affrontati da ciechi e ipovedenti. Si chiamano Web Content Accessibility Guidelines (WCAG) e sono considerate talmente autorevoli da essere citate come standard a cui tendere per rendere accessibile il proprio sito web anche da varie leggi nazionali.
Ogni anno, l’organizzazione internazionale WebAIM le utilizza per mettere insieme un report che determini lo stato dell’accessibilità digitale a livello globale: prende il primo milione di siti più visitati al mondo e controlla la loro aderenza alle WCAG, tenendo conto di tutti gli “errori” che trova per ogni sito. Il loro report più recente, relativo al mese di febbraio di quest’anno, mostra che il 94,8 per cento dei siti più visitati al mondo viola in un modo o nell’altro le linee guida, e quindi non risulta pienamente accessibile. Molto spesso sono violazioni che hanno direttamente a che fare con il modo in cui si approcciano a internet le persone cieche.
Questo non vuol dire che non riescano, in qualche modo, a usare questi siti, magari appoggiandosi a strumenti tecnologici specifici come fa Francesco. Vuol dire, però, che per tantissime persone navigare su internet è decisamente più faticoso del necessario. E c’è chi rinuncia del tutto: secondo recenti dati europei, il 93,5 per cento delle persone senza disabilità tra i 16 e i 74 anni utilizza internet almeno una volta alla settimana. Tra le persone con una disabilità moderata, la percentuale scende all’86 per cento. Tra quelle con una disabilità grave, è del 78,2 per cento.
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«Tanti siti, tante app sono utilizzabili, ma non sono accessibili», riassume Maurizio Molinari, che lavora per il Parlamento europeo, si occupa molto di accessibilità ed è cieco. «Lo sforzo che ci metti può andare da pochi secondi in più di fatica a sbatterci la testa contro. Il problema vero sopraggiunge quando ti serve un’altra persona, vedente, per poter usufruire di un servizio». Molinari, per esempio, usa regolarmente uno screen reader, strumento di sintesi vocale che identifica il testo presente su una schermata e poi lo legge “ad alta voce” oppure lo trasforma in braille, in modo che l’utente non vedente possa leggerlo grazie al tatto: sono dispositivi elettromeccanici simili a tastiere che si possono collegare a computer, tablet e smartphone.
Ci sono siti, però, che con gli screen reader funzionano malissimo, come quelli di molte compagnie aeree: «io non riesco quasi mai a comprarmi un volo», dice Molinari. Il fatto che questi siti siano disegnati per cercare di proporre costantemente nuovi servizi a pagamento – bagagli da aggiungere, posti a sedere da selezionare, hotel da prenotare all’arrivo e via dicendo – attraverso finestre popup crea infatti grossi problemi a chi usa gli screen reader. Lo stesso vale anche per altri siti che dipendono fortemente dalle pubblicità per sostentarsi, come quelli di alcuni giornali.
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Oltre al grande quantitativo di popup fastidiosi, ci sono altri problemi ricorrenti. Sarebbe per esempio utile che tutti si ricordassero di includere una descrizione testuale breve ma accurata degli elementi grafici che caricano online, che si tratti di un logo, della foto di un prodotto, di una locandina, di un post su Instagram, ma pochi lo fanno. Lo stesso vale per i sottotitoli ai video, fondamentali per le persone sorde. Ed esistono maniere di progettare moduli e altri elementi interattivi in modo che le persone che per navigare online usano solo la tastiera, e non il mouse, possano interagirci tranquillamente. Molti programmatori però le ignorano.
Negli ultimi anni qualcosa si sta muovendo, anche se non necessariamente per via di una maggiore attenzione culturale nei confronti dell’accessibilità. Negli Stati Uniti stanno aumentando le cause legali, e anche in Europa c’è stato un caso significativo: la compagnia aerea spagnola Vueling ha ricevuto 90mila euro di multa per il suo sito web inaccessibile, in violazione della legge spagnola sulla non discriminazione. In Italia, nel 2024, l’associazione Luca Coscioni fece causa all’impresa ferroviaria Italo, accusandola di avere un’app e un sito particolarmente inaccessibili per le persone con disabilità visive e motorie.
È probabile che casi del genere aumentino in futuro, anche perché sta per entrare in vigore il Regolamento europeo sull’accessibilità, che stabilisce delle norme comuni a tutti gli stati membri dell’Unione europea con l’obiettivo di spingere le aziende a conformare i propri servizi digitali alle già citate Web Content Accessibility Guidelines. La legge si applicherà a tutte le aziende che operano all’interno dell’Unione europea con almeno dieci dipendenti e un fatturato superiore a 2 milioni di euro: era già in vigore per le grandi aziende, con un fatturato minimo di 500 milioni di euro. Entrerà in vigore il 28 giugno 2025, ma ci vorrà un po’ prima che l’Agenzia per l’Italia Digitale, responsabile di identificare e segnalare eventuali violazioni, dia effettivamente inizio ai controlli.
«L’accessibilità, quella fatta in modo adeguato, dovrebbe essere by design e by default: in pratica, un prodotto dev’essere pensato accessibile fin da subito», spiega Sauro Cesaretti, uno dei fondatori di Accessibility Days, conferenza annuale dedicata al tema. «Se il prodotto non è stato progettato come accessibile per vari motivi, l’azienda deve avviare un processo di analisi e “remediation”». In primo luogo, l’azienda deve contattare una realtà esperta di accessibilità e chiedere una verifica dei propri prodotti in base agli standard di accessibilità contemporanei. Gli esperti genereranno poi un report che sottolinea quali linee guida sono state violate e suggeriscono soluzioni tecniche per ovviare al problema.
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Non è un processo immediato, e nemmeno molto economico: per questo, da anni esistono soluzioni temporanee e parziali sotto forma di software che identificano alcuni dei principali problemi di accessibilità di un sito e li correggono in poche ore. Sono i cosiddetti “overlay”, plugin che gli utenti disabili possono solitamente attivare tramite un pulsante in sovraimpressione.
Da una parte, però, molte persone disabili trovano queste soluzioni macchinose e frustranti. Dall’altra, le stesse società che mettono in vendita queste soluzioni spesso sottolineano sui loro siti che si tratta di scorciatoie che non risolvono davvero i problemi di accessibilità di un sito. AccessiWay, uno dei principali attori del settore, sottolinea per esempio l’importanza di assumere degli esperti in carne e ossa che identifichino le lacune del singolo sito e indichino come colmarli, e considera il proprio software di overlay soltanto «un punto di partenza utile per migliorare l’esperienza utente in modo immediato».
«C’è una differenza grossa tra prendere l’accessibilità sul serio e considerarla una semplice lista di cose da fare», dice Molinari. «Il Regolamento europeo sull’accessibilità è utilissimo, ma serve anche un’evoluzione culturale, altrimenti rischiamo di trovarci davanti a tantissime dichiarazioni di conformità alla legge senza che si siano fatti davvero dei passi avanti in termini di accessibilità. Bisogna smettere di pensare che un sito accessibile sia necessariamente un sito brutto o poco moderno, per esempio, anche perché non è vero: si può assolutamente progettare un sito accessibile che sia anche moderno. Basta considerare l’accessibilità fin dall’inizio».
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