Per stabilire se ci sia stata violenza sessuale, la reazione della vittima è irrilevante
L'ha ribadito la Cassazione intervenendo sul caso di un sindacalista, assolto perché lei ci aveva messo 20-30 secondi a opporsi

Ieri la Corte di Cassazione ha depositato le motivazioni con cui lo scorso febbraio aveva stabilito che Raffaele Meola dovrà tornare a processo. Meola è un ex sindacalista accusato di violenza sessuale che era stato assolto nei primi due gradi di giudizio sulla base della mancata tempestiva reazione di Barbara D’Astolto, la donna che gli si era rivolta per una vertenza sindacale, e che, secondo i giudici, aveva impiegato troppo tempo, circa 20-30 secondi, per opporsi agli abusi che stava subendo.
La sentenza della Cassazione, spiega l’avvocata di Differenza Donna Teresa Manente, che difende Barbara D’Astolto, «ha ribadito che l’atto sessuale senza consenso esplicito è violenza sessuale: non conta la durata della reazione della vittima, bisogna semmai accertare la condotta dell’imputato. E nel momento in cui vengono compiuti degli atti sessuali senza consenso si compie un reato».
Manente ricorda che questo è uno dei principi stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, il principale strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica. L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 2013, quindi «è legge», ma spesso non la vediamo applicata. Non è un caso, dice Manente, che la Cassazione in merito alle due sentenze di assoluzione di primo e secondo grado che ha annullato parli di «violazione di legge», una legge internazionale di cui le norme interne devono tenere conto.
I fatti risalgono al 2018, quando Barbara D’Astolto era assistente di volo all’aeroporto di Malpensa e si era rivolta a Meola, sindacalista della CISL, per un parere in merito a una controversia con il suo datore di lavoro. Meola l’aveva ricevuta nel suo ufficio, l’aveva fatta accomodare sulla sedia di fronte alla scrivania, aveva chiuso la porta, si era posizionato alle sue spalle, le aveva detto «sfogati quanto vuoi, siamo soli, non c’è nessuno», le aveva palpeggiato la schiena, l’aveva baciata sul collo e sulle orecchie, e quando la donna aveva chiesto che cosa stesse facendo dicendogli di smettere, lui aveva risposto che la stava facendo semplicemente rilassare. Meola aveva quindi continuato a palpeggiarla, arrivando a toccarle i seni e a infilarle le mani all’interno degli slip dalla schiena, finché la donna non aveva urlato.
Dopo la denuncia presentata da D’Astolto, a Meola era stato contestato il reato di violenza sessuale, nella fattispecie della minore gravità. Il tribunale di Busto Arsizio, nel 2022, aveva ritenuto il racconto della donna pienamente attendibile. Aveva anche ritenuto che gli atti compiuti da Meola avessero una chiara valenza sessuale.
Tuttavia, il tribunale lo aveva assolto perché non erano stati riscontrati elementi di violenza, minaccia o abuso di autorità che concretizzano, secondo il nostro codice penale, la condotta tipica di violenza sessuale. Secondo i giudici di primo grado, inoltre, la condotta dell’uomo non si era concretizzata «in atti idonei a superare la volontà contraria di lei»: i palpeggiamenti si erano insomma protratti per venti o trenta secondi senza che lei avesse espresso in modo repentino un dissenso. La donna, aveva infine stabilito il tribunale, non era in un rapporto di subordinazione nei confronti dell’imputato, bensì in una condizione paritaria: gli si era rivolta per un consiglio, era libera di muoversi e uscire dalla stanza, mentre l’uomo non avrebbe potuto percepirne il dissenso perché si trovava alle sue spalle.
In secondo grado l’assoluzione era stata confermata. Anche in questo caso i giudici avevano ritenuto che non ci fosse stata violenza né minaccia né abuso di autorità, che i comportamenti dell’uomo non fossero qualificabili come repentini o insidiosi perché erano durati 20 o 30 secondi, e che non fosse possibile pensare che la vittima si fosse sentita soggiogata fisicamente perché l’imputato era di corporatura normale.
A quel punto il procuratore generale della Corte di appello di Milano e la parte civile difesa da Teresa Manente avevano presentato due ricorsi, entrambi accolti dalla Cassazione lo scorso febbraio, che ora ha spiegato perché.
La Cassazione sostiene che le decisioni dei primi due tribunali «non abbiano fatto buon governo dei consolidati principi affermati dalla giurisprudenza in materia di violenza sessuale». Tra le condotte vietate dall’articolo 609 bis del codice penale che si occupa di violenza sessuale va compreso qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, «sia idoneo e finalizzato a porre in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale» di chi lo subisce. E questo anche se il contatto corporeo è stato di breve durata. Dunque, dice la Cassazione, «lo sfioramento o il toccamento repentino e insidioso integrano sempre la fattispecie della violenza sessuale consumata».
Nel caso in esame, scrive sempre la Cassazione, i giudici di primo e secondo grado hanno immaginato che la durata del contatto escludesse l’insidiosità del gesto e comportasse la necessità della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità per pronunciare la condanna. Ma tale conclusione «è fallace perché non ha tenuto conto di tutti gli elementi di contesto». È chiaro che la donna era andata nell’ufficio dell’imputato per un consiglio su una sua vertenza di lavoro. Ed è chiaro che «era rimasta del tutto disorientata e sguarnita rispetto ai comportamenti dell’uomo». Il ritardo nella sua reazione, dunque, e nella manifestazione del dissenso, «è stato irrilevante».
La Cassazione ha ribadito dunque quanto sia irrilevante, ai fini della configurazione della violenza sessuale, la reazione della vittima, «perché la sorpresa può essere tale da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi». È poi ben noto e presente nella letteratura scientifica il fenomeno del blocco emotivo o freezing, cioè l’incapacità di reazione dovuta alla paura e l’incapacità di fronteggiarla: né, d’altra parte, si dice, «esiste un modello di reazione o un modello di vittima». La Cassazione ha ricordato infine come varie sentenze abbiano stabilito che, per essere esenti da responsabilità nelle violenze sessuali, sia «necessario che l’agente acquisisca il consenso del destinatario degli atti sessuali, o comunque non lo escluda anche in caso di gesto repentino e insidioso».
La sentenza di assoluzione di secondo grado è stata pertanto annullata e il processo si dovrà rifare tenendo conto delle questioni ribadite dalla Cassazione.
Oggi in Italia la condotta tipica di violenza sessuale si verifica, secondo quanto scritto all’articolo 609 bis del codice penale, quando un soggetto «con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità» ne costringa un altro «a compiere o a subire atti sessuali». Si verifica anche quando c’è induzione a compiere o a subire atti sessuali «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto» o «traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». Il presupposto della sussistenza dei reati sessuali è la costrizione, cioè il contrasto tra la volontà di chi commette il reato e di chi lo subisce. L’ipotesi incriminatrice è una sola (“violenza sessuale”) diretta in origine a punire solo lo stupro e gli atti sessuali, ma nella prassi vi è stata fatta rientrare anche una parte consistente di reati che hanno a che fare con le molestie sessuali.
Il modello dell’attuale legge italiana sulla violenza sessuale, che deriva dal codice Rocco del ventennio fascista, può dunque essere definito un “modello vincolato”, perché oltre alla mancanza del consenso della vittima richiede il ricorso (diretto e immediato) a una serie di mezzi di costrizione. Nei fatti l’attuale legge si adatta male a moltissimi casi, fra cui gli stupri all’interno della coppia o le violenze in cui la persona che subisce lo stupro non oppone resistenza perché ha paura.
Nella pratica la giurisprudenza ha superato il requisito della violenza come mezzo di costrizione avvicinandosi a un modello consensualistico, che dà cioè importanza al consenso più che al dissenso e che molti altri paesi europei e non solo hanno introdotto. Ed è vero che ci sono dei riferimenti normativi internazionali, come la Convenzione di Istanbul, che sono per l’Italia vincolanti. Ma è anche vero, conclude l’avvocata Manente, che le decisioni dei tribunali spesso non ne tengono conto: «Una specializzazione da parte dei magistrati sui principi della Convenzione di Istanbul e una modifica del codice penale che quella Convenzione ci richiede eviterebbero interpretazioni restrittive della norma interna. Ed eviterebbero applicazioni non corrette».
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