Si può anche non avere pensieri
Letteralmente, secondo un gruppo di neuroscienziati che ha descritto l’esperienza del «vuoto mentale»

Mentre svolgiamo attività quotidiane comuni come cucinare, prendere un mezzo pubblico o annaffiare le piante, di solito i pensieri ci passano per la testa come un flusso di informazioni ininterrotto. Pensiamo ad altro, non a cosa stiamo facendo, ed è normale che sia così. Ma mentre facciamo queste cose a volte capita anche di avere la mente completamente vuota, per brevi istanti: ce ne rendiamo conto, di solito, nel momento in cui ci fermiamo per chiederci cosa stessimo facendo o dicendo.
Oltre che di lunghe e antiche riflessioni filosofiche, l’impressione sfuggente di non avere alcun pensiero è da tempo oggetto di vari studi scientifici. Interessa ricercatrici e ricercatori che studiano la meditazione, ma più di recente anche altri che si occupano della cognizione umana e del sonno. Un gruppo di neuroscienziati di Francia, Belgio e Australia ha esaminato la letteratura scientifica su questo argomento, circa 80 articoli, per cercare di trovare una definizione condivisa di «vuoto mentale» e capire se sia possibile associarlo a specifici cambiamenti fisiologici, neurali e cognitivi rilevabili.
Dai risultati dell’analisi è emerso che il vuoto mentale esiste: non è un’impressione soggettiva, ma un preciso stato cerebrale diverso da quelli riscontrati nelle persone quando pensano a qualcosa, qualunque essa sia. Può verificarsi mentre stiamo parlando, mentre siamo assorti in silenzio, mentre ascoltiamo musica o anche mentre dormiamo. Non è chiaro quanto duri né cosa lo causi, e nemmeno se sia l’effetto di momentanei cali di attenzione o una caratteristica di particolari problemi di memoria o di linguaggio.
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La definizione di «vuoto mentale» (mind blanking) non è univoca, perché le persone tendono a usare diverse parole per descriverlo quando ne hanno uno: dicono «non ricordo cosa stessi pensando», per esempio, oppure «non stavo prestando attenzione». Questo può complicare il lavoro degli studiosi, perché a seconda delle descrizioni che ascoltano e valutano di volta in volta sono portati a spiegare il vuoto riconducendolo a processi e attività cerebrali differenti, come appunto la memoria o l’attenzione. Ma non è detto che il vuoto mentale abbia a che fare per forza con l’una o con l’altra.
Secondo il gruppo autore dell’analisi, che si occupa di questo argomento dal 2023, per studiare il vuoto mentale è più utile definirlo come l’impressione di non avere pensieri, o comunque di non essere in grado di esprimerne alcuno. È una definizione intenzionalmente vaga, su cui è più facile capirsi con le persone che si sottopongono agli esperimenti in laboratorio: questo semplifica il lavoro di individuare e poi valutare in dettaglio ogni singolo vuoto mentale da loro segnalato.
Gli strumenti diagnostici più utilizzati in questo tipo di ricerca sono l’elettroencefalografia (EEG), che registra l’attività elettrica spontanea del cervello, e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che permette di vedere quali aree del cervello si attivano in risposta a determinati stimoli.
Un modo per studiare il vuoto mentale è eseguire gli esami mentre ai partecipanti, perlopiù volontari, viene chiesto di non pensare a niente. Di solito questo invito produce però attività in aree del cervello tipicamente coinvolte nei processi di autovalutazione: è probabile che, anziché essere un segno di vuoto mentale, questa attività sia in realtà un segno dello sforzo cognitivo necessario per soddisfare la richiesta di non pensare a niente.
In un loro precedente studio, per aggirare questo problema, le autrici e gli autori dell’analisi avevano quindi usato un modo diverso di studiare il vuoto mentale: trovarlo ma senza indurlo. Avevano eseguito cioè gli esami sui partecipanti a riposo e rilassati: nel mentre avevano chiesto a ciascuno di loro, a intervalli casuali, di dire a cosa stesse pensando. Concentrando l’attenzione su chi aveva risposto che non stava pensando a niente, avevano scoperto che nei secondi prima di rispondere quelle persone mostravano in effetti un preciso schema ricorrente nell’attività cerebrale.
Ogni volta, in pratica, dalla risonanza emergeva una specie di disattivazione temporanea di un circuito complesso che tiene collegate aree diverse del cervello. È un circuito che di solito rimane attivo, anche quando le persone sono soprappensiero, che è il motivo per cui i neuroscienziati considerano l’esperienza del vuoto mentale e quella di vagare con la mente (mind wandering) due fenomeni diversi. I dati dell’elettroencefalografia indicavano anche che le onde associate all’attività elettrica del cervello durante i vuoti mentali erano simili alle onde riscontrate quando le persone dormono e fanno sogni di cui poi non ricordano il contenuto.
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In generale, tra le persone sottoposte agli esperimenti, il vuoto mentale si è verificato tra il 5 e il 20 per cento delle volte in cui i ricercatori lo hanno cercato o indotto: è probabile che sia quindi un’esperienza umana relativamente frequente e normale, ma ci sono comunque persone più inclini a sperimentarla rispetto ad altre. Inoltre, secondo alcuni dati analizzati dal gruppo di ricerca, il vuoto mentale è più frequente tra le persone che soffrono di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e di altri problemi di salute mentale (tra cui il disturbo d’ansia) di cui è una caratteristica secondaria. Sono però necessari studi più approfonditi per conoscere meglio le relazioni tra il vuoto mentale e questi disturbi.
Una delle ipotesi proposte dalle autrici e dagli autori dell’analisi per spiegare il vuoto mentale è che abbia a che fare con la stanchezza e con il bisogno sporadico di disattivare per brevi istanti anche durante la veglia le interconnessioni tra le diverse aree del cervello, per permettere che continui a funzionare regolarmente. Potrebbe essere una delle ragioni per cui i vuoti tendono a verificarsi verso la fine di compiti che richiedono un’attenzione prolungata, dopo la privazione del sonno o dopo esercizi fisici intensi, anche se possono capitare in altri momenti.
Secondo diversi neuroscienziati studiare il vuoto mentale può essere utile a comprendere meccanismi fondamentali del cervello. Il fatto che sul piano neurologico presenti molte somiglianze con altri stati cerebrali come il sonno permette di saperne di più di altri tipi di esperienze più difficili da studiare sperimentalmente, ha detto a El País la ricercatrice e studiosa del sonno Adriana Alcaraz. Secondo lei studiare il vuoto mentale e i possibili benefici del non pensare a niente è ancora più importante oggi che in passato, visto che viviamo «in un mondo in cui le nostre menti sono costantemente impegnate, a lavorare e a guardare lo smartphone».



