La strana fretta del governo sulle riforme ha le sue ragioni

Giorgia Meloni vuole approvare quella della giustizia entro il 2025 per motivi elettorali, anche a costo di forzare

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente del Senato Ignazio La Russa durante le celebrazioni del 25 aprile all'Altare della Patria, a Roma (GIUSEPPE LAMI/ANSA)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente del Senato Ignazio La Russa durante le celebrazioni del 25 aprile all'Altare della Patria, a Roma (GIUSEPPE LAMI/ANSA)
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Mercoledì il Senato ha approvato in via definitiva il decreto-legge Sicurezza, che contiene una ventina tra nuovi reati o aggravi di pena per quelli già esistenti. Il voto finale sulla conversione in legge, al termine di una seduta concitata, è avvenuto a conclusione di un iter molto inconsueto: il provvedimento infatti era inizialmente un disegno di legge pressoché identico, che dopo un anno e mezzo di discussione in parlamento il governo aveva trasformato in decreto-legge, con una scelta senza precedenti che aveva di fatto quasi impedito ulteriori discussioni ed emendamenti a un provvedimento molto contestato.

Poi il governo ha adottato, sia alla Camera che al Senato, procedure accelerate – comunque consentite dal regolamento – che anche in questo caso hanno compresso in maniera significativa il dibattito e la possibilità di modificare e correggere il testo.

Non è l’unico provvedimento su cui il governo nelle ultime settimane ha mostrato di avere una strana fretta. Lo ha fatto anche sulle riforme costituzionali che riguardano la giustizia e l’elezione diretta del presidente del Consiglio (il cosiddetto “premierato”), dopo una lunga fase di stallo e di incertezza.

C’entrano per lo più motivi di opportunità politica: a novembre ci saranno le elezioni in 5 regioni, e sarà il più importante evento elettorale prima della fine della legislatura, nel 2027. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e come lei anche i suoi alleati Matteo Salvini e Antonio Tajani, hanno interesse a portare avanti alcuni progetti di riforma istituzionale per poterli usare come argomenti per la campagna elettorale.

Ma c’è anche una ragione apparentemente più sfuggente: avendo dovuto rinunciare alla riforma dell’autonomia differenziata, di fatto bocciata dalla Corte costituzionale, Meloni rischierebbe di trovarsi, a distanza ormai di oltre due anni e mezzo dall’inizio del suo mandato, senza alcuna importante riforma da poter esibire al proprio elettorato. Per ora ha deciso di procedere speditamente soprattutto sulla riforma della giustizia, perché sul premierato ritiene che non le convenga farlo.

La riforma della giustizia propone alcuni cambiamenti notevoli: su tutti la cosiddetta separazione delle carriere, di cui si discute in Italia da decenni, che introduce carriere con concorsi di ammissione diversi e norme interne diverse per i magistrati inquirenti (i pubblici ministeri che conducono le indagini) e quelli giudicanti (i giudici che emettono le sentenze). Ci sono poi altre importanti modifiche, e criticate, che riguardano il Consiglio superiore della magistratura.

I senatori di Pd e M5S protestano nell’aula di Palazzo Madama contro l’approvazione del decreto Sicurezza, il 4 giugno 2025 (ANSA)

La volontà di procedere in modo spedito si è manifestata in modo più chiaro giovedì scorso, quando è stato definito il calendario dei lavori durante la conferenza dei presidenti dei vari gruppi parlamentari alla Camera. Come da prassi, oltre al programma di giugno sono state indicate sommariamente le questioni che si intendono affrontare anche nel mese successivo, cioè luglio. A quel punto il ministro per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani, ha ricordato che per il governo è importante tornare ad affrontare le riforme costituzionali della giustizia e del premierato.

Tra le due questioni però c’è una grossa differenza. Sul premierato Meloni ha condiviso con alcuni ministri un’idea ormai abbastanza consolidata: approvare in via definitiva la riforma solo a ridosso della fine della legislatura, dunque verosimilmente all’inizio del 2027, per poi tenere il referendum confermativo all’inizio della prossima legislatura.

Una riforma costituzionale, infatti, per entrare in vigore deve essere approvata per due volte da ciascuna camera, e se negli ultimi due passaggi parlamentari questo non avviene con una maggioranza di almeno due terzi, deve essere confermata direttamente dagli elettori attraverso un referendum. Meloni sa che non ci sono le condizioni per avere una simile maggioranza. E i membri del governo sono consapevoli, anche sulla base di sondaggi riservati, che il gradimento popolare per la riforma del premierato non è enorme: anche un referendum confermativo, dunque, avrebbe un esito incerto (il referendum confermativo non ha bisogno di un quorum, quindi è valido a prescindere da quante persone vanno a votare).

Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il parlamento durante lo svolgimento del question time alla Camera, il 9 ottobre 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Sarebbe insomma rischioso tenerlo prima delle prossime elezioni politiche: una eventuale bocciatura popolare sarebbe un pessimo segnale per il governo e potrebbe compromettere anche la campagna elettorale seguente. L’idea è allora tenerlo all’inizio della prossima legislatura: se al governo ci fosse ancora la destra, ci sarebbe il tempo per assorbire l’effetto negativo di una eventuale sconfitta nel referendum; se invece ci fosse al governo il centrosinistra i rischi sarebbero minori e ci sarebbe la possibilità di mettere in difficoltà la parte politica avversa.

Il problema è che, seguendo questa procedura, il governo è costretto a dilatare i tempi necessari per l’approvazione definitiva. Infatti il disegno di legge costituzionale sul premierato, approvato dal Consiglio dei ministri nel novembre del 2023 e poi in prima lettura dal Senato nel giugno del 2024, è sostanzialmente fermo in commissione Affari costituzionali della Camera da circa un anno: nonostante fosse stata definita da Meloni «la madre di tutte le riforme» del suo governo, non sembra che finora la maggioranza le abbia davvero dato la priorità.

– Leggi anche: Perché la separazione delle carriere dei magistrati è considerata di destra

Per evitare di trasmettere un’immagine di inconcludenza sul piano delle riforme, il governo ha quindi deciso di puntare tutto sulla riforma della giustizia, inizialmente voluta per lo più da Forza Italia e poi via via fatta propria sempre più anche da Fratelli d’Italia. Il disegno di legge, approvato dal governo nel maggio del 2024 e dalla Camera lo scorso gennaio, è ora in commissione Affari costituzionali del Senato, dove la maggioranza ha deciso di ricorrere a strumenti particolarmente incisivi e un po’ controversi per ridurre il tempo di approvazione.

In particolare, il presidente della commissione Alberto Balboni di Fratelli d’Italia è ricorso al cosiddetto “canguro” per aggirare l’ostruzionismo messo in atto dalle opposizioni (che volevano prolungare strumentalmente i tempi della discussione). Il “canguro” è uno strumento che consente di far decadere un gran numero di emendamenti tra loro analoghi, votandone solo alcuni e considerando dunque cassati quelli simili.

Questa decisione ha generato forti proteste da parte dei partiti di centrosinistra: in Senato infatti non era mai successo che si usasse il canguro durante l’analisi di un provvedimento in commissione; finora ci si era limitati a utilizzarlo in aula, cioè in una fase più avanzata del dibattito. Le opposizioni si sono così rivolte al presidente del Senato Ignazio La Russa (di Fratelli d’Italia), per chiedere se fosse lecito questo utilizzo del canguro. Lui ha fatto decidere alla Giunta per il regolamento, il comitato di senatori che si occupa di dirimere le questioni procedurali: anche lì la destra è in maggioranza, e così si è stabilito che quell’azione fosse lecita. Il “canguro” insomma è stato infine adottato in commissione.

Il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Alberto Balboni, di Fratelli d’Italia, il 16 febbraio 2023 (MASSIMO PERCOSSI/ANSA)

La riforma della giustizia dovrebbe essere votata in aula già a giugno, probabilmente l’11 o il 18. Cambierebbe poco, in ogni caso: fin dall’inizio del suo esame alla Camera il governo ha infatti ritenuto “blindato” il testo, come si dice nel gergo della politica, respingendo cioè qualsiasi proposta di modifica, anche quelle che arrivavano dalla stessa maggioranza.

È una assoluta anomalia ed è una palese distorsione della prassi secondo cui le prime due letture di un disegno di legge costituzionale contemplano la possibilità, da parte del parlamento, di correggere anche in maniera incisiva il testo della riforma. Solo le ulteriori due letture, dette appunto in gergo “confermative”, sono quelle in cui di solito si esclude qualsiasi nuovo intervento. Ma la forzatura del governo in questo senso non è casuale: l’intenzione è appunto approvare la riforma entro il 2025 ed è già stata esplicitata in maniera informale da alcuni ministri.

È una cosa possibile, in effetti: l’articolo 138 della Costituzione, che disciplina i metodi con cui modificare la Costituzione stessa, stabilisce che ciascuna camera debba attendere almeno 3 mesi tra una lettura e l’altra di propria competenza. La volontà di Meloni è insomma quella di approvare entro giugno il disegno di legge al Senato; tra fine luglio e inizio agosto di nuovo alla Camera e tra ottobre e novembre di nuovo al Senato, così da poter indire il referendum confermativo entro la primavera del 2026.

Al governo sono infatti convinti che, a differenza che sul premierato, sulla separazione delle carriere dei magistrati e più in generale sulla riforma della giustizia ci sia una grossa probabilità di ottenere la maggioranza dei voti da parte dei cittadini in occasione di un eventuale referendum. In questo modo si otterrebbero due risultati politici: in autunno, a ridosso delle delicate elezioni regionali, il governo potrà rivendicare il risultato di aver completato l’iter di approvazione parlamentare della riforma; e poi in primavera potrà puntare a vincere il referendum e usare quel risultato come abbrivio per lanciare la lunga campagna elettorale che porterà alle elezioni politiche del 2027.