La band che va forte adesso in Groenlandia fa reggae
I Sauwestari sono diventati famosi localmente e non solo con un genere insolito nell'Artico, e una volta hanno rotto Spotify
di Matteo Castellucci

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Nell’estate del 2023 il primo disco dei Sauwestari stava andando talmente forte, per i numeri che fa di solito la musica groenlandese, che Spotify si insospettì e lo tirò giù per due settimane. C’era stato un problema tecnico. La Groenlandia non appare sulle mappe dello streaming perché la accorpano alla Danimarca (di cui fa parte con larghe autonomie): gli ascolti vengono conteggiati a Copenaghen. Spotify riscontrò – tutto lì, tutto insieme – un picco di ascolti inconsueto per una produzione groenlandese.
Oggi i Sauwestari stanno lavorando al secondo disco e sono considerati uno dei più interessanti gruppi groenlandesi, apprezzato anche all’estero. Fanno reggae, un genere che non aveva avuto così fortuna in Groenlandia. Almeno finché non sono arrivati loro.
Il fondatore è Fabrizio Barzanti, un italiano che vive nella capitale Nuuk dal 2012, dopo esserci arrivato la prima volta quando per lavoro suonava sulle crociere e aver passato dieci anni in Danimarca. Si ricorda bene l’episodio di Spotify: «Mi sono fidato e ci hanno fottuto». La band perse l’equivalente di 12mila euro, secondo Barzanti per colpa del servizio utilizzato per distribuire la musica sulla piattaforma. Da allora i Sauwestari hanno cambiato distributore digitale e hanno fatto una quindicina di concerti. Hanno riempito i giardini di Tivoli di Copenaghen, uno dei posti più prestigiosi dove suonare in Danimarca.

Fabrizio Barzanti, a Nuuk lo scorso 11 marzo (Matteo Castellucci/il Post)
Nei prossimi mesi suoneranno a tre grossi festival: in Canada, in Norvegia e al principale della Groenlandia, l’Akisuanerit. L’ultimo sarà un ritorno per i Sauwestari. Nel 2023 infatti il loro concerto di debutto coincise con quello di chiusura del festival, per dire di che tipo di successo abbiano avuto e quanto rapido. In Groenlandia c’erano già stati alcuni esperimenti musicali reggae, ma nessuno paragonabile per dimensioni. Funzionavano altri generi, soprattutto il rock e da ultimo il rap.
Barzanti è anche il produttore musicale dei Sauwestari. Nel suo studio, da cui si vede il fiordo di Nuuk, racconta d’aver avuto una duratura fascinazione per il reggae ma di non averlo mai suonato. «Nel 1980 ho visto Bob Marley a Torino. Avevo 16 anni, mi ha flashato». Barzanti ha una teoria sul perché gli venne il ghiribizzo di provarci, infine. «Ho fumato cannabis per quarant’anni, tantissimo. Nel 2018 ho deciso di smettere ed è stata una roba abbastanza traumatica per me. Ho detto: e adesso che cazzo faccio?».
La risposta fu mettersi in studio a produrre e arrangiare la prima decina di tracce. Gli ci volle un mese, e fu sorprendentemente facile. I Sauwestari sono nati così. Messa a punto una prima idea della musica, Barzanti si mise alla ricerca di musicisti. Adesso, quand’è al completo, la formazione ha 11 componenti. Il primo passo, però, fu trovare qualcuno che scrivesse i testi in lingua groenlandese (quella standard è il Kalaallisut occidentale, ci sono anche un dialetto orientale e uno settentrionale). Barzanti pensò al suo amico Minik Hansen, che è un poeta molto attivo localmente.
Hansen spiega che per lui era importante che il testo non passasse in secondo piano rispetto alla musica. Dice che ci teneva a «materializzare un messaggio»: la condizione di popolo indigeno e ancora oppresso dei groenlandesi. In Groenlandia è fervido il dibattito sul passato coloniale della Danimarca, che è inscindibile dalla questione dell’indipendenza. Una canzone dei Sauwestari in particolare riflette sul «rapporto sbilanciato» tra i due paesi. Si intitola “Apeqqutit”, che significa “Domande”.
È un dialogo dove un rapper interpreta il ruolo di un colonizzatore e di Hans Egede, il missionario luterano che cristianizzò l’isola: in cima al porto vecchio di Nuuk c’è ancora una sua statua che molti vorrebbero togliere, ritenendola un simbolo di come l’identità indigena per secoli sia stata soppressa e negata. Alle domande in groenlandese – perché ci discriminate, perché ci chiamate scimmie – la seconda voce replica in danese, melliflua, evadendole e mostrandosi interessata solo alle risorse naturali dell’isola. «Le persone groenlandesi riconosceranno queste domande, sanno dove va questo dialogo», conclude Hansen.
La musica groenlandese ha avuto una storica componente di denuncia di problemi sociali e ingiustizia sistemica. Laura Lennert Jensen, che organizza il festival Arctic Sounds, fa l’esempio di una canzone del 2003 del trio rap Prussic, che fece scalpore perché contestava l’apatia della società groenlandese dalla prospettiva dei figli, e della produzione di Josef Tarrak-Petrussen, il più famoso rapper groenlandese.

Tamburi tradizionali groenlandesi (qilaat) appesi dentro il negozio di dischi di Nuuk (Matteo Castellucci/il Post)
Il processo di riappropriazione delle tradizioni e della mitologia Inuit è stato cruciale anche per Sebastian Enequist, il frontman della band metal Sound of the Damned. Enequist dice di essere cresciuto «ignorando chi fossero i miei antenati» e che la musica è un modo per riequilibrare questa stortura. La sua band usa il throat singing (o canto gutturale) che è comune ad altri popoli artici ed era vietato in epoca coloniale, e una delle loro canzoni urla «riprendiamoci la nostra terra».
Le mire espansionistiche del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, hanno accelerato questi dibattiti sul colonialismo, e ci sono finite dentro. Per questo Barzanti e Hansen anticipano che una delle future canzoni dei Sauwestari, dopo i danesi, «manderà a fanculo [pure] Trump», anche se probabilmente senza nominarlo direttamente.
I casi di Enequist, che sogna di fare l’insegnante, e dei Prussic, scomparsi dopo quell’exploit, dicono molto delle difficoltà di fare musica in un posto come la Groenlandia. Con l’eccezione delle superstar, anche per gli artisti più conosciuti è complicato camparci e quasi tutti devono fare altri lavori (in modo simile a quanto avviene per i calciatori). «Molte volte abbiamo artisti davvero bravi e di talento, ma mancano i soldi per farli uscire dalla Groenlandia», spiega Christian Elsner. Elsner è titolare dell’unico negozio di dischi di Nuuk, l’Atlantic Music, dell’omonima etichetta (una delle due groenlandesi) ed è il chitarrista dei Nanook, a lungo la band più popolare dell’isola.
Le ragioni sono anzitutto logistiche. La Groenlandia è enorme ma scarsamente abitata, ha poco meno di 57mila abitanti. È costosissimo spostarsi da un posto all’altro – e quindi anche fare i tour – perché non ci sono strade: ci si sposta solo in aereo, elicottero o barca. Secondo Elsner nell’isola c’è una decina di studi di registrazione e la maggioranza degli artisti ha un home studio, cioè casalingo. Il mercato digitale è stato importante per compensare gli introiti scomparsi insieme ai supporti fisici. Ai tempi d’oro, quando rifiutarono un contratto della Sony per non dover cantare in inglese, i Nanook avevano venduto migliaia di dischi: un numero esorbitante, in rapporto al numero di abitanti.
A dicembre del 2023, per promuovere la musica locale, la compagnia telefonica pubblica della Groenlandia ha introdotto un servizio di streaming, Tusass Music. Ha una app e un repertorio di oltre 5mila brani, l’abbonamento mensile costa 49 corone danesi (circa 6 euro e mezzo). Secondo Lennert Jensen ha consentito di riscoprire, in un posto solo, musica che era stata caricata alla spicciolata su YouTube o passata in radio, migliorando le prospettive di guadagno degli artisti. Tusass Music infatti ha l’esclusiva sullo streaming della musica degli artisti groenlandesi lì e in Danimarca e in cambio redistribuisce loro circa due terzi degli introiti del servizio.
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