Le cose che restano (e quelle che no)

«Mentre sceglievo la roba da regalare o eliminare, sentivo i pensieri gonfiarsi e accumularsi come sacchi di plastica nera. Perché teniamo tanta roba? Cosa succede alle cose quando non ci siamo più? Perché non pensiamo mai a chi resta? Perché non ci liberiamo degli oggetti come i serpenti fanno con la muta?»

Un hangar della Gondrand, multinazionale della logistica e dei traslochi (via Wikimedia)
Un hangar della Gondrand, multinazionale della logistica e dei traslochi (via Wikimedia)
Gioia Guerzoni
Gioia Guerzoni

Traduce narrativa contemporanea da quasi trent'anni, e le piace sempre molto. Nel tempo libero viaggia o contempla mappamondi, cammina, dirige cantieri, nuota. Vive in Grecia.

Caricamento player

Un mese fa ho infilato 81 anni di una vita in 100 sacchetti di plastica.

Mia zia era una di quelle donne inossidabili che avevano fatto il ’68 con la tessera del PCI, e fino ai 50 anni si era rifiutata di avere il divano perché era borghese, quindi pur essendo già disabile da decenni – cioè non poteva stare in piedi più di mezz’ora al giorno, ma solo sdraiata – viveva in affitto al quinto piano senza ascensore in una vecchia casa di Bologna, senza nessun aiuto se non il senso dell’umorismo, un paio di amiche care, la spesa online e la pensione da insegnante elementare. Poi è caduta, si è rotta qua e là, ed è finita in casa di cura e in ospedale, dove è morta. Nel periodo in cui era ricoverata, il proprietario – di tutto il palazzo – voleva avere l’appartamento vuoto al più presto, per alzare ancora di più l’affitto e riempirlo di studenti.

(Archivio Gioia Guerzoni)

Mentre mettevo da parte la roba da regalare – coperte, giacche calde, pentole – ed eliminavo quella da buttare – scartoffie, ricordi che non ricordavo, cibi scaduti – sentivo i pensieri gonfiarsi e accumularsi come i sacchi di plastica nera che mi circondavano con aria sempre più minacciosa.

Perché teniamo tanta roba? Cosa succede alle cose quando non ci siamo più? Perché non pensiamo mai a chi dovrà perdere un sacco (sacchi) di tempo a sbarazzarsi dei nostri oggetti? Chi ha figli li condanna a giornate strazianti, chi non ha figli condanna i nipoti, chi non ha nemmeno i nipoti, tipo me, scaricherà il fardello sugli amici.

Decido seduta stante che non lo farò.

Preferisco l’azione agli oggetti, e infatti ho sempre conservato pochissimo anche perché mi muovevo tanto e spesso. Faccio parte della squadra Butto subito, non di quella Tengo che non si sa mai. Anzi, quando sono morti i miei genitori, molto giovani, ho lasciato fare tutto a mio fratello. Il patto era: io non prendo niente ma non alzo un dito. Quindi quella di mia zia era la prima casa che svuotavo.

In quelle quattro giornate di sgombero furioso ho mandato un messaggio a una scrittrice che traduco e che è diventata amica e lei mi ha detto: «Stuff. Se chi si occuperà di quello che rimane quando non ci saremo più non ne vedrà la bellezza, rimarrà soltanto roba».

– Leggi anche: Gli abitanti della nostra casa

La vita degli oggetti è un mistero. Se poi sono oggetti altrui, il mistero si infittisce.

Man mano che la casa si spogliava diventava meno casa, una collezione di muri e pavimenti e soffitti, vetro e legno, superfici sgombre. Libreria gigantesca, satolla di pagine ingiallite, e ora vuota, grazie a una gentile libraia che ha preso quasi tutto. E poi ogni tanto rigurgitava cose da qualche cassetto o da un armadio in solaio. Ecco la grande stampa portata dalla Russia – da brava comunista la zia era andata a Mosca giovanissima, e aveva studiato il russo. Ecco le diapositive di San Pietroburgo e quaderni fitti in cirillico. Sarebbe bello tenerli ma cosa me ne faccio? Sacchetto di plastica nera, buttare. Kilim bellissimo portato dal Marocco. Sacco bianco, regalare al vicino.

Ripenso ai versi di Adam Zagajewski dal suo magnifico Dalla vita degli oggetti (Adelphi 2012):

«La pelle levigata degli oggetti
è tesa come la tenda di un circo.

Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità
e la lu­ce, l’India e l’Europa».

Perché non ci liberiamo degli oggetti come i serpenti fanno con la muta?

(Archivio Gioia Guerzoni)

Perché forse pensiamo di essere eterni, li teniamo stretti quasi fossero una carta di identità, una dimostrazione tangibile di gusto e raffinatezza, un modo per ricordare il presente. Perché forse abbiamo paura di dimenticare.

O forse sono anche una sorta di tempio portatile, un talismano, un simbolo che rappresenta la nostra persona e il nostro esistere in un’epoca in cui nulla è tangibile e per molti non esistono più cerimonie né rituali. Mi sono buttata, da brava traduttrice, sull’etimologico. La parola talismano deriva dall’arabo ṭilasm (طِلَسْم, plurale طلاسم talāsim), che deriva dal greco antico telesma (τέλεσμα), che significa “completamento, rito religioso, pagamento”, in ultima analisi dal verbo teleō (τελέω), “completare, compiere un rito”.

Nel meraviglioso volume The Encyclopedia of Things che accompagnava la mostra omonima l’autrice, l’artista e sciamana Elisabeth Smolarz, ha intervistato centinaia di persone da tutto il mondo chiedendo a ciascuna di scegliere l’oggetto che più le sta a cuore. Ne sono usciti altrettanti ritratti su sfondo bianco: ciascun oggetto, solo sulla pagina, senza umani ad accompagnarlo, rappresenta un mondo, una persona, un momento, un periodo del passato. Una specie di esercizio che invita il lettore a individuare qualcosa che lo rappresenta, che ci obbliga, se vogliamo stare al gioco, a distillare la nostra personalità in un unico oggetto. Forse l’anima finisce davvero in un oggetto, forse gli oggetti ci parlano, sembra suggerire l’autrice. Forse. Comunque già gli egizi si mettevano tanti ninnoli nei sarcofagi, quindi questa passione per gli oggetti non è una novità.

Eppure io preferisco da sempre dimenticare – anche se so bene che non si può sfuggire alla memoria – e faccio di tutto per non avere intorno resti tangibili che possano diventare micce del ricordo. Funziona quasi sempre, ma non quando ci si deve sporcare le mani con gli oggetti degli altri. 

E cosa rimane di una persona, poi? Cosa tengo della zia, della sua ironia, della sua visione politica sempre lucida, delle poesie in rima che le venivano così, di getto, delle storie esilaranti di quando, con mio zio – o meglio io lo chiamavo zio ma non si erano mai sposati, era roba da borghesucci come il divano o il televisore grande – avevano la comune dove giocavano a pallavolo e discutevano di politica e ovviamente si erano incaponiti, per anni, con la modalità coppia aperta, ma in tarda età avevano ammesso di essere stati ingenui.

(Archivio Gioia Guerzoni)

Una domenica degli anni Settanta la zia aveva portato a casa un tipo mentre lo zio, che adorava cucinare, spignattava in cucina. Lei e il tipo erano andati in camera da letto, e zio, che fingeva di non essere geloso, si era messo a sbattere furiosamente piatti e padelle. Dopo, il tizio aveva chiesto timidamente di guardare un po’ di Formula 1 sul microscopico televisore – gli zii avevano ceduto all’aggeggio borghese ma era piccolissimo e se ne vergognavano tanto che lo coprivano con un telo indiano – e la zia, schifata da quella richiesta, si era rivestita in un lampo, aveva acceso il televisore, e mentre lui era imbambolato davanti allo schermo a fissare le auto ronzanti, aveva salutato lo zio e se ne era andata a bighellonare al parco.

Nessuno ha mai saputo cosa si siano detti lo zio e il tipo quando lei è uscita.

– Leggi anche: Istruzioni per (non) cambiar vita

Mia zia se ne fregava sanamente del giudizio altrui – in questo siamo identiche. E se ne fregava anche degli oggetti. Un giorno le ho telefonato tutta contenta per dirle che avevo sentito dire che i tappeti sottili si potevano lavare in lavatrice. Ma mi ero dimenticata di dirle di escludere la centrifuga perché anche io non sono una casalinga modello. Quando poi sono andata a trovarla a Bologna mesi dopo, mi ha mostrato un seghetto. «Vedi, certe famiglie hanno il coltello da formaggio, o la sciabola da sabrage, invece noi abbiamo il seghetto da tappeto. Come siamo chic!»

Dopo la possente centrifuga, il tappeto si era cementificato al punto che era impossibile estrarlo dal cestello. Chiedere ai vicini? Giammai. La zia non chiedeva mai – lo zio era morto da tempo, essendo molto più vecchio di lei nonché il suo professore di sociologia, scandalo che le era valso il ripudio della famiglia, ma lei se ne era fregata. Quindi aveva preso un piccolo seghetto e pian piano, per qualche minuto ogni giorno visto che non poteva stare in piedi a lungo, aveva tagliato tante striscioline di kilim fino a liberare la lavatrice. Era molto orgogliosa della sua opera. Insomma, mia zia era uno spasso. 

Una volta alla settimana ci sentivamo per un paio d’ore, chiacchieravamo di politica e libri, e ci scambiavamo storie e ricette inventate visto che condivideva con me uno schietto spregio del tempo passato ai fornelli – ho fatto le lenticchie ripiene di granchio! Ti consiglio il brodo alla griglia, prendi carta e penna che ti do la ricetta. Eccetera. L’unica cosa che davvero le piaceva cucinare era la polenta. Aveva comprato il pentolone con la pala elettrica per rimestarla e se la faceva anche in agosto, fregandosene del caldo.

Come imbottigliare la risata beffarda della zia? Come ricordare le sue celeberrime, surreali idioZie?

Ho trovato la cartelletta omonima e ho riso per ore, dopo aver buttato via sacchi e sacchi e un po’ di lacrime. Poi ho tenuto due stampe anni Settanta di solidarietà alla comunità afroamericana e una ciotola di legno dove teneva le Golia, di cui era ghiotta.

Alla fine, oltre ai ricordi e alle risate, siamo un pezzo di legno e della carta, quindi forse non c’è bisogno di tenere tanta roba.

Come diceva Epitteto nel Manuale, «per tutto il tempo che ti è concesso di usufruire di questi beni, abbine cura come di qualcosa che non è tuo, come i viaggiatori della locanda». Se mi piacessero i tatuaggi, sceglierei questa frase ma poi forse ci vorrebbe tutto il brano, compresa la parte famosa in cui dice qualcosa tipo «Quando baci tuo figlio o tua moglie, ripeti a te stesso che stai baciando un mortale: la sua morte non ti turberà».

E allora dovrei tatuare un gran fazzoletto di pelle, tutta la schiena forse, quindi allora meglio leggere i libri, che poi è la cosa che forse mi piace fare di più nella vita.

– Leggi anche: Storia del nuovo cognome (e altri refusi)

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su