Com’è la detenzione dei migranti nel CPR in Albania
Diversa da quelli in Italia, ma comunque pessima: la sicurezza è inadeguata e si vive in estremo isolamento

Il trattenimento di alcune decine di migranti nel centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) costruito dall’Italia a Gjader, in Albania, è il primo utilizzo del centro dopo mesi in cui era rimasto sostanzialmente vuoto. Inizialmente quel posto non era stato pensato esclusivamente come CPR, ma come un più ampio centro in cui trasferire persone migranti intercettate nel mar Mediterraneo in attesa della valutazione della loro richiesta d’asilo, con dentro un centro di trattenimento e un carcere. Il governo ha tentato di utilizzarlo in questo modo per mesi, senza riuscirci, finché lo scorso marzo ha approvato un decreto-legge che lo rende utilizzabile almeno per la parte adibita a CPR come un qualsiasi altro CPR sul territorio italiano.
I CPR sono strutture in cui vengono mandate le persone che hanno già ricevuto un decreto di espulsione (perché è stata rifiutata la loro richiesta d’asilo o per altre ragioni) e aspettano di essere rimpatriate. In Italia ce ne sono una decina e hanno tutti gravi problemi, tra condizioni detentive pessime e sistematiche violazioni dei diritti umani. Quello di Gjader non fa eccezione, secondo quanto raccontato al Post da due persone che pochi giorni fa hanno fatto un sopralluogo successivo al trasferimento dei migranti: l’europarlamentare del Partito Democratico Cecilia Strada, che segue da tempo e da vicino la questione, e l’avvocata Anna Pellegrino dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI).
Dall’11 aprile a ora, cioè da quando è stato trasferito il primo gruppo di migranti nel centro, si sono già verificati 35 di quelli che vengono definiti “eventi critici”, secondo il relativo registro del centro consultato sia da Pellegrino che da Strada. Originariamente il gruppo era di 41 persone, ora sono in 25: secondo una fonte che sta seguendo la questione da vicino è imminente un secondo trasferimento di migranti, circa 15 in tutto.
La definizione di “evento critico” comprende una varietà di cose, tra cui proteste, tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. In questo caso sono soprattutto di atti di autolesionismo: Strada ha parlato di persone che si sono tagliate, di una che ha tentato di cucirsi le labbra perforandole con un filo metallico (un tipo di protesta piuttosto comune nelle strutture detentive), e di un tentativo di impiccagione che le autorità del CPR hanno classificato come un’azione dimostrativa, di protesta, più che un tentativo effettivo di suicidarsi. Sono tanti, per così pochi giorni di detenzione nel CPR: «Parliamo di una media di due eventi critici e mezzo al giorno», dice Pellegrino, che come Strada ha visitato il centro di Gjader sabato 26 e domenica 27 aprile.
Il CPR di Gjader è un po’ diverso dagli altri che ci sono in Italia: alcuni dei tipici problemi dei CPR italiani non ci sono, ma ce ne sono altri che secondo Strada e Pellegrino rendono la detenzione al suo interno particolarmente intollerabile.
Il centro per esempio non è sovraffollato come altri CPR: in quello di Gjader al momento sono disponibili 48 posti letto (a regime dovrebbero essere 144 nella parte del CPR, su 880 posti complessivi di tutto il centro di trattenimento di Gjader), e come detto al momento le persone migranti al suo interno sono 25. I problemi sono legati soprattutto alla sicurezza di queste persone e alla loro condizione di isolamento, molto più estrema di quella di un CPR italiano.
Strada, che ha potuto visitare le celle all’interno del centro, ha parlato soprattutto di assenza di misure preventive sui frequenti tentativi di suicidio che si verificano nei CPR. Dice che in ogni cella c’è un letto a castello e un tavolo inchiodato al pavimento con sopra, attaccato al soffitto, uno sprinkler antincendio, cioè il sensore che si attiva spruzzando acqua: è composto da una struttura metallica a cui è molto semplice attaccare corde o lenzuola, e col tavolo inchiodato sotto è molto raggiungibile: «Mi chiedo con quale logica siano state pensate quelle celle, tenendo conto di quel che sappiamo sulle condizioni di chi si trova in un CPR», dice Strada.
Nei CPR in Albania sono state portate anche persone che si trovavano da anni in CPR italiani, noti tra le altre cose anche per come fiaccano le condizioni psicofisiche delle persone al loro interno: al termine dei periodi di detenzione chi esce si trova spesso in condizioni di maggior disagio rispetto a quando era entrato, in molti casi avendo accumulato patologie o tossicodipendenze dovute all’abuso di psicofarmaci. Strada e Pellegrino dicono che tra i 25 migranti detenuti nel CPR albanese ce ne sono alcuni che provengono dalle carceri italiane, anche queste notoriamente in pessime condizioni.
Nel CPR di Gjader c’è anche almeno una persona che ha vissuto regolarmente in Italia per molti anni, lavorando e col permesso di soggiorno: «Parliamo di una persona che ha perso i documenti per restare sul territorio dopo essere stato tenuto a lavorare in nero dal proprio datore di lavoro, diventando quindi formalmente un migrante irregolare», dice Strada.
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A rendere il CPR albanese un posto particolarmente difficile è anche l’isolamento, che è maggiore e diverso rispetto a quello di un CPR italiano. In alcuni di questi si può portare con sé un cellulare, per navigare su internet o chiamare i familiari, ricevere pacchi con vestiti o cibo, o visite del proprio avvocato: in quello di Gjader non è possibile utilizzare il cellulare, ricevere pacchi e i colloqui con i legali, che sono italiani, sono più sporadici perché il centro si trova in un altro paese. Non è stato inoltre ancora attivato un conto corrente per ricevere soldi e poter comprare generi alimentari aggiuntivi, o sigarette, come avviene in carcere. Non ci sono sale comuni.
«Le persone migranti nel centro di Gjader vivono in un limbo: sei totalmente tagliato fuori dal mondo, scollegato dal contesto; non sai che ora è, quanto tempo è passato, e non sai nemmeno quanto resterai lì dentro, a differenza di quanto accade in un carcere, in cui si sconta una pena definita», dice Strada, che aggiunge che ad alcune delle persone che si trovano nel centro di Gjader non era nemmeno stato detto dove stavano andando, quando sono state prelevate dai CPR o dalle carceri italiane.
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Sia Strada che Pellegrino dicono che c’è una forte mancanza di trasparenza su quanto accade nel CPR di Gjader e sulla sua gestione: raccontano che hanno potuto accertare l’esatto numero di persone all’interno del centro solo domenica all’ora di pranzo, dopo un giorno da quando si trovavano lì, perché il personale della struttura sosteneva di non poter dare nessuna informazione sul centro: «La limitazione del potere ispettivo è più forte di quella già prevista da un CPR italiano», dice Pellegrino. Lei e Strada hanno fatto una richiesta di accesso agli atti con la lista delle persone detenute, la copia del registro degli eventi critici, i decreti di trattenimento e quelli di trasferimento, tutti documenti al momento irreperibili.



