Tutti i problemi dei CPR

I centri di detenzione per migranti irregolari che il governo vuole potenziare non favoriscono i rimpatri e al loro interno sono state documentate gravi violazioni dei diritti umani

Il tentativo di fuga di un detenuto dal CPR di via Corelli a Milano (ANSA/Andrea Fasani)
Il tentativo di fuga di un detenuto dal CPR di via Corelli a Milano (ANSA/Andrea Fasani)

Una delle principali misure che il governo intende realizzare con la dichiarazione dello stato di emergenza sui migranti è il potenziamento e l’ampliamento dei “centri di permanenza per il rimpatrio”, spesso chiamati anche con la sigla CPR: sono i centri in cui vengono detenute le persone che non hanno un permesso di soggiorno valido per rimanere in Italia, in attesa di essere espulse (cosa che succede soltanto nella metà dei casi, in media).

Da quando si è insediato, il governo di Giorgia Meloni ha proposto più volte il potenziamento dei CPR come soluzione per gestire meglio l’immigrazione e favorire i rimpatri dei migranti irregolari: finora però questi centri si sono dimostrati inefficaci e inutilmente costosi per lo Stato, che ne appalta la gestione ad aziende private. Da anni, inoltre, sono duramente criticati dalle associazioni che si occupano di diritti umani per le condizioni disumane e degradanti in cui si trovano le persone detenute.

I propositi del governo hanno già avuto alcuni sviluppi concreti. Nella legge di bilancio approvata alla fine dello scorso anno il ministero dell’Interno era stato autorizzato ad ampliare la rete dei CPR ed erano stati aumentati di 5 milioni di euro i fondi dedicati per il 2023 e di 14 quelli per il 2024. Il decreto-legge sull’immigrazione approvato dopo il naufragio di migranti a Cutro, in Calabria, aveva snellito le procedure per realizzarne di nuovi. Tuttavia il governo punta più che altro sullo stato di emergenza, perché gli permette di agire in deroga alle leggi vigenti realizzando un obiettivo più volte dichiarato: avere almeno un CPR in ogni regione.

Attualmente in Italia ce ne sono 10 in 8 regioni (Puglia e Sicilia ne hanno due ciascuna), per un totale di 1.300 posti: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Macomer (Nuoro), Milano, Palazzo San Gervasio (Potenza), Roma, Torino e Trapani. Al momento solo 9 di questi sono attivi, perché a inizio marzo il CPR di Torino è stato chiuso temporaneamente dopo una rivolta di alcune delle persone detenute, che avevano incendiato parte dei locali e reso inagibili gli spazi. Piccole rivolte, così come gesti di autolesionismo e tentativi di suicidio sono piuttosto frequenti nei CPR, proprio a causa di condizioni detentive giudicate incompatibili con il rispetto dei diritti umani.

I centri per la detenzione dei migranti irregolari esistono con nomi e forme diverse ormai da quasi 30 anni, senza che nel frattempo sia cambiata la sostanza dei problemi che si portano dietro. Furono introdotti nel 1995 da un decreto-legge del governo di Lamberto Dini, che non fu poi convertito in legge ma ispirò quelle successive. Nel 1998 la legge Turco-Napolitano (dai nomi dei ministri che la firmarono, nel primo governo Prodi) prevedeva la detenzione amministrativa nei “centri di permanenza temporanea”, o CPT, per un massimo di 30 giorni. Nel 2002 la legge Bossi-Fini del secondo governo di Silvio Berlusconi estese il periodo di permanenza da 30 a 60 giorni, che nel 2009 il quarto governo Berlusconi allungò fino a 180 giorni, sei mesi. Nel frattempo i CPT erano diventati CIE, “centri di identificazione ed espulsione”.

Nel 2017 Marco Minniti, il ministro dell’Interno del governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni, istituì gli attuali CPR, più che triplicando la capienza complessiva dei centri, che fino a quel momento potevano ospitare meno di 400 persone in tutta Italia. Nel 2020 il periodo di detenzione fu di nuovo ridotto dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese da 6 a 3 mesi, la regola tuttora in vigore. È comunque possibile una proroga di un altro mese, quindi fino a un totale di 120 giorni, nel caso in cui esistano accordi bilaterali di rimpatrio tra l’Italia e il paese d’origine della persona detenuta nel centro.

A prescindere dal nome queste strutture non hanno mai funzionato nel modo auspicato dai governi: ogni anno transitano dai CPR poche migliaia di persone, e l’Italia ne rimpatria circa la metà. Per avere qualche riferimento, a partire dagli ultimi dati disponibili, nel 2019 sono state rimpatriate 2.992 persone su 6.172 transitate nei CPR, nel 2020 2.232 su 4.387, nei primi dieci mesi e mezzo del 2021 poco più di 2.200 su circa 4.500. Sono numeri molto modesti se confrontati agli oltre 500mila migranti irregolari attualmente presenti nel paese. L’altra metà delle persone transitate dai CPR dopo tre mesi solitamente torna in libertà, e quindi torna a stare sul territorio italiano da irregolare. È stato inoltre riscontrato che le percentuali di rimpatrio sono rimaste invariate anche quando i periodi di detenzione nei CPR erano più lunghi.

Uno dei motivi per cui i rimpatri non funzionano è la mancata collaborazione dei paesi d’origine dove dovrebbero tornare i migranti irregolari. Nella maggior parte dei casi infatti le persone che entrano in un CPR non hanno documenti, e i loro dati anagrafici vengono registrati sulla base di un’autodichiarazione che comprende anche il paese di provenienza. Una volta raccolte queste informazioni, la procura di competenza si rivolge ai paesi indicati e chiede loro di riconoscerli come propri cittadini: il problema è che spesso i paesi in questione si rifiutano di farlo.

Ci sono poi alcuni paesi più collaborativi, non molti, che negli anni hanno fatto accordi con l’Italia per accettare di volta in volta un certo numero di rimpatri. «La scelta di collaborare ha a che fare poco con i diritti e molto con accordi di natura economica» spiega Maurizio Veglio, avvocato esperto di diritto dell’immigrazione. Di questi accordi però si sa pochissimo, perché sono classificati come trattati internazionali di sicurezza e vengono sottoscritti dalle forze dell’ordine invece che dalla politica: una scelta che secondo gli esperti di immigrazione non è casuale, perché se fossero classificati come trattati internazionali di natura politica il governo sarebbe costretto a una trasparenza maggiore, il testo dovrebbe passare da una ratifica in parlamento ed essere poi reso pubblico. Secondo Veglio «è difficile sostenere che un accordo di rimpatrio non abbia natura politica».

Insomma, non è facile capire se e quanto spenda lo Stato italiano per agevolare i rimpatri, e negli anni sono falliti diversi tentativi di accesso agli atti di associazioni e persone che si occupano di immigrazione che hanno chiesto di consultare il testo degli accordi. La mancanza di trasparenza sulle politiche di rimpatrio riguarda tutti i livelli, a partire dal momento in cui le persone entrano nei CPR.

Le autorità possono decidere la detenzione di una persona irregolare nei CPR in vari modi: per esempio dopo un normale controllo dei documenti per strada, o dopo la scadenza di un regolare permesso di soggiorno. Altri possono finire nei CPR subito dopo essere sbarcati in Italia in un’operazione di soccorso di una nave delle ong o dopo essere arrivati in altri modi, soprattutto se al loro arrivo dichiarano di provenire da un paese considerato “sicuro” e non indicano chiaramente di volere chiedere asilo, cioè una forma di protezione internazionale.

Per legge, le persone che chiedono asilo non possono essere espulse durante l’esame della domanda. Se però la domanda viene respinta e il migrante irregolare fa ricorso, allora il periodo all’interno di un CPR può prolungarsi finché il giudice non si sarà espresso sul ricorso, fino a un massimo di 12 mesi, nonostante in quel periodo non esista legalmente la possibilità del rimpatrio.

A volte finiscono subito nei CPR persone che non hanno manifestato esplicitamente di voler chiedere asilo, e che secondo le autorità provengono da paesi “sicuri” per il rimpatrio. I criteri con cui vengono definiti sicuri sono controversi: tra questi paesi c’è per esempio anche la Tunisia, un posto in cui i diritti umani delle minoranze non sono garantiti, e con un governo nazionale sempre più autoritario e ostile ai migranti provenienti dall’Africa centrale e meridionale. La situazione di instabilità della Tunisia è tra i motivi alla base delle molte partenze di questi primi mesi del 2023.

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La detenzione all’interno di questi centri è di tipo amministrativo, avviene cioè senza che sia stato commesso un reato e senza che si tenga un normale processo: in Italia esiste un reato per il soggiorno irregolare sul territorio nazionale – che ha una storia travagliata e discussa – ma prevede solo il pagamento di una sanzione, senza la detenzione. Di fatto la sanzione non viene mai applicata perché non avrebbe senso, dal momento che le persone irregolari sul territorio non hanno beni immediatamente a disposizione, e in genere non viene nemmeno svolto un processo, che comunque ha un costo per lo Stato. Si passa quindi subito alle pratiche amministrative per il rimpatrio, quelle che portano alla detenzione nei CPR.

Con la detenzione amministrativa di fatto i migranti irregolari vengono detenuti come se fossero in un carcere, e anzi in condizioni talvolta peggiori, ma senza le garanzie e le tutele previste dall’ordinamento penitenziario.

Inoltre la detenzione deve essere convalidata da un giudice di pace, cioè un magistrato onorario, che si occupa abitualmente di casi di minore entità e importanza al posto dei giudici ordinari e praticamente mai di pene carcerarie, sulle quali non ha sufficienti competenze per decidere. In teoria la detenzione dovrebbe essere disposta nei casi in cui si ritiene ci sia un pericolo per la sicurezza pubblica, il rischio di fuga o se si ritiene strumentale la domanda di protezione internazionale della persona migrante.

Il giudice di pace ha solo 96 ore, cioè quattro giorni, per convalidare o meno la detenzione amministrativa: nella maggior parte dei casi si limita a confermare la decisione della questura, nonostante spesso i migranti in questione abbiano condizioni psicofisiche del tutto inadatte a sopportare la detenzione nei CPR. Le persone che vivono senza un permesso di soggiorno non possono avere un contratto di lavoro regolare o affittare una casa, e sono costrette a vivere ai margini della società, fra incertezze e privazioni.

Sono stati documentati casi in cui una persona si è dichiarata minorenne, cosa che impedirebbe la detenzione in un CPR, ed è stata comunque convalidata la detenzione in un CPR, per l’assenza di «elementi di certezza circa la minore età del trattenuto». Eppure la legge dice un’altra cosa, cioè che in assenza di certezze vale la presunzione di minore età.

Un altro problema è che l’ingresso e il soggiorno nei CPR non sono regolati da quelle che vengono chiamate “fonti primarie del diritto”, cioè leggi o atti aventi forza di legge (come i decreti-legge, per esempio), ma sono determinati da “fonti secondarie” come i regolamenti amministrativi emanati dai ministeri, che hanno maglie più larghe. Un esempio è il modo in cui fino all’anno scorso venivano fatte le visite mediche per certificare l’idoneità delle persone a essere detenute in un CPR: per i regolamenti se ne sarebbe dovuto occupare preferibilmente un medico esterno ai centri, ma nei fatti spesso erano i medici degli stessi CPR a farle. Dal 2022 sono state introdotte regole più stringenti, per le quali solo l’ASL (azienda sanitaria locale) è autorizzata a fare queste visite mediche.

Il motivo per cui è meglio che se ne occupi un medico esterno è che i CPR sono dati in gestione dallo Stato ad aziende private, secondo bandi che prevedono un compenso per ogni persona detenuta: i gestori dei CPR sono quindi incentivati a trattenere più persone possibili (nel rispetto della capienza massima dei centri) e per questo i medici interni ai CPR non sono considerati imparziali nelle loro valutazioni.

I bandi vengono assegnati secondo il criterio dell’“offerta economicamente più vantaggiosa”, quindi se li aggiudicano le aziende che dicono di poter offrire il servizio migliore al prezzo più basso. La prefettura fissa le richieste qualitative e il costo massimo giornaliero per ogni persona detenuta: le aziende cercano di soddisfare al massimo i criteri di qualità al prezzo più basso possibile. Per esempio lo scorso anno il bando per il CPR di Milano partiva da 45 euro giornalieri per ogni migrante irregolare detenuto, e se l’è aggiudicato la società Martinina con un’offerta di 40 euro.

Questo meccanismo produce una situazione in cui i gestori dei CPR cercano di risparmiare su tutto per massimizzare i profitti, dal personale ai servizi. Le associazioni e i politici che hanno potuto visitare i CPR italiani hanno documentato situazioni di estremo degrado e sistematiche violazioni dei diritti umani, oltre al mancato rispetto di alcuni vincoli imposti dai bandi. Non ci sono situazioni di sovraffollamento rispetto alla capienza massima dei centri, ma spesso le singole celle sono sovraffollate perché altri spazi sono inagibili.

I CPR sono luoghi in cui alle persone è negata ogni tipo di socialità e contatto con l’esterno, e dove le condizioni igieniche, i livelli di sostentamento e le cure sono spesso al di sotto di ogni soglia accettabile. Una recente inchiesta di Altreconomia ha documentato come all’interno dei centri vengano prescritte e somministrate quotidianamente grandi quantità di psicofarmaci, perlopiù con l’obiettivo di sedare le persone detenute ed evitare che si ribellino. Lorenzo Figoni, uno dei due autori dell’inchiesta, spiega che diverse prefetture non hanno voluto o potuto fornire dati utili alla realizzazione dell’articolo, dicendo di non avere a disposizione rendiconti sulle spese mediche affrontate dai CPR: eppure proprio le prefetture avrebbero il compito di vigilare sull’operato dei gestori.

L’esasperazione ha portato spesso a tentativi di rivolta oppure a gesti di autolesionismo, che per i detenuti costituiscono di fatto l’unico modo per essere trasferiti in un pronto soccorso pubblico, dove ricevono cure e cibo. Sono documentati anche diversi tentativi di suicidio e suicidi.

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I migranti irregolari non sono adeguatamente informati dei loro diritti e della loro possibilità di difendersi legalmente per chiedere di poter uscire dagli stessi CPR. In tutti i CPR italiani (tranne che in quello di Milano, grazie a una sentenza del 2021) vengono sequestrati i telefoni alle persone detenute senza che sia previsto da alcun regolamento. In alcuni casi i cellulari vengono presi anche prima che venga convalidata la detenzione amministrativa, cioè nel periodo in cui in teoria potrebbero usare i telefoni per reperire informazioni e documenti utili alla loro identificazione. Tutto questo è in contraddizione con quanto detto dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, sui CPR di recente: «Le persone che vi sono trattenute potrebbero uscire in pochissimi giorni se collaborassero per l’identificazione».

Alla fine del periodo di detenzione un migrante su due esce dai CPR perché il rimpatrio non è stato possibile o perché il giudice non ha convalidato la detenzione: lo fa spesso in condizioni di maggior disagio rispetto a quando era entrato, in molti casi avendo accumulato patologie o tossicodipendenze dovute all’abuso di psicofarmaci. Non ci sono dati al riguardo, ma non è nemmeno escluso che chi esce dai CPR possa facilmente rientrarci, seguendo lo stesso iter con cui era entrato la prima volta. In un caso su due in pratica i CPR servono solo a peggiorare le condizioni di persone che già vivono ai margini, senza risolvere i problemi legati all’immigrazione ma aggravandoli.

Negli anni sono state proposte varie soluzioni per superare o per migliorare i CPR. Un approccio più drastico ne vorrebbe la completa abolizione: dal punto di vista del numero dei rimpatri cambierebbe poco, ma si eviterebbero le sistematiche violazioni dei diritti umani e si risparmierebbero soldi pubblici. È difficile stimare esattamente quanto costino i CPR allo Stato, tra accordi internazionali per i rimpatri, bandi assegnati ai gestori e personale di sicurezza occupato nelle operazioni di identificazione e detenzione. Gli unici costi su cui si hanno certezze sono quelli dei bandi assegnati ai gestori: secondo le stime della rete di associazioni CILD, Coalizione italiana per la libertà e i diritti civili, nel triennio 2018-2021 il costo complessivo della gestione privata dei 10 CPR italiani è stato di circa 44 milioni di euro, quasi 3mila euro a migrante transitato dai centri.

Una soluzione più ottimistica sarebbe invece quella di accorciare molto i tempi di detenzione nei CPR, ma dovrebbe essere accompagnata da politiche di cooperazione internazionale più efficaci che finora in Italia non si sono viste. Altri approcci prevedono l’abolizione degli strumenti coercitivi, come la detenzione o l’espulsione immediata, in favore di pratiche che prevedano percorsi di rimpatrio che coinvolgano direttamente la persona migrante, instaurando una maggiore collaborazione. Gli esperti di immigrazione e diritto dell’immigrazione sono concordi sul fatto che le politiche restrittive finora adottate abbiano dato pochi risultati anche perché inducono una maggiore resistenza nelle persone che ricevono l’ordine di espulsione.

Per il momento il governo ha parlato solo di potenziamento e ampliamento dei CPR, e non dei tempi di permanenza né degli accordi con i paesi di provenienza. Quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno e Piantedosi era il suo capo di gabinetto al ministero, i cosiddetti “decreti sicurezza” allungarono la permanenza massima nei CPR fino a 180 giorni: una possibilità di cui si è parlato anche in questi giorni, nonostante sia già dimostrato che tempi maggiori nei centri non corrispondono a un maggior numero di rimpatri.