I partigiani che fecero la Resistenza non furono solo italiani

Fu un esercito internazionale e cosmopolita, come ha dimostrato la storiografia più recente: al contrario delle bande fasciste

di Giulia Siviero

La foto del partigiano Giorgio Marincola durante una commemorazione dell'ANPI di Bolzano, 19 febbraio 2022 (Lorenzo Zambello/LaPresse)
La foto del partigiano Giorgio Marincola durante una commemorazione dell'ANPI di Bolzano, 19 febbraio 2022 (Lorenzo Zambello/LaPresse)
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Nel 2019 l’Associazione nazionale partigiani (ANPI) di Brescia riprese il tweet di una persona che stava sostenendo come i «VERI partigiani» avessero combattuto per difendere la “loro” patria contro «l’invasor ovvero lo straniero». L’ANPI rispose che i partigiani avevano combattuto «contro i fascisti, italiani e stranieri, per la liberazione dell’Italia dalla dittatura». Aggiunse anche che avevano accolto tra loro «i migranti di allora, cioè le persone costrette a lasciare il loro paese», magari per la guerra.

L’ANPI voleva segnalare l’ennesimo tentativo di ridurre la Resistenza italiana a un movimento patriottico, bianco e nazionalista. Voleva anche criticare la rappresentazione della guerra di Liberazione come una guerra combattuta in Italia che vide gli italiani sconfiggere uniti il nemico straniero.

A partire da questo scambio Wu Ming 2, pseudonimo di uno degli scrittori del collettivo Wu Ming, diffuse sull’allora Twitter un articolo poi circolato moltissimo, intitolato “Partigiani migranti. La Resistenza internazionalista contro il fascismo italiano”: elencava, attraverso una sorta di censimento, le persone di oltre cinquanta nazionalità e provenienti da tutti e cinque i continenti che parteciparono alla Resistenza in Italia contro i nazisti e i fascisti negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale.

Quanti furono, i partigiani non nativi italiani, non è semplice da sapere: non meno di 15-20mila, dicono i dati più attendibili, pari a circa un decimo del totale. Di molti di loro si conoscono solo i nomi e non i cognomi. Molti dei loro nomi peraltro furono italianizzati, storpiati o semplificati, negli elenchi vennero ricordati con pseudonimi o nomi di battaglia, e sulle lapidi commemorative spesso indicati in modo generico.

Molti poi, dopo la Liberazione, rientrarono subito in patria e non presentarono la documentazione necessaria per ottenere riconoscimenti ed essere in seguito rintracciabili nelle banche dati italiane del partigianato: lo facevano in gran parte per il timore che tornati a casa potessero essere visti come disertori o come traditori. Il clima del dopoguerra infatti contribuì ad accentuare una rappresentazione della Resistenza in termini essenzialmente nazionalisti.

Nei vari paesi le Resistenze furono raccontate come fenomeni autoctoni a ciascun stato europeo: gli italiani avevano combattuto per la liberazione dell’Italia, i francesi per quella della Francia, e così via. In realtà chi in Italia si opponeva all’occupazione tedesca e alla Repubblica Sociale Italiana – lo stato fantoccio instaurato da Benito Mussolini nel nord Italia tra il 1943 e il 1945 – non era granché stupito della presenza tra le proprie file di combattenti non italiani: lo si capisce dai toni dei diari, dalle testimonianze, dalla letteratura e da altri documenti del tempo.

Ne parlavano come un dato di fatto, la naturale conseguenza di una guerra realmente globale e «della vocazione espansionista e imperialista del nazifascismo, che per anni aveva abbattuto e ridisegnato confini e appartenenze nazionali», raccontano Carlo Greppi e Chiara Colombini in un libro collettaneo pubblicato nel 2024 e intitolato Storia internazionale della Resistenza italiana. D’altronde anche le forze armate tedesche avevano una marcata connotazione multinazionale, così come quelle alleate che gli si opponevano (cioè la coalizione di cui facevano parte soprattutto Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica).

Alcune storie individuali di “partigiani stranieri” sono celebri e conosciute da tempo, come quella del caporalmaggiore della marina tedesca Rudolf Jacobs che nel 1944, con il suo commilitone austriaco, decise di passare dalla parte della Resistenza. Lo fece sui monti di Sarzana, in provincia di La Spezia, proprio lungo la Linea Gotica, guidando una pattuglia contro i fascisti trincerati in una caserma. Qualcosa andò storto e Jacobs, nell’agguato, morì diventando della lotta per la Liberazione un “eroe germanico”, come si usava dire allora.

Parte della targa commemorativa per Rudolf Jacobs, Sarzana (Wikipedia)

Sono note da tempo anche alcune specifiche vicende collettive, come quella di una formazione partigiana delle Langhe, in Piemonte, chiamata “Islafran”, dove militavano italiani, slavi, francesi e sovietici. Ma anche la “Lunense”, compagnia guidata dal futuro storico della guerra partigiana Roberto Battaglia e dal maggiore inglese Anthony John Oldham. Battaglia scriverà che la sua fu una compagnia composta «da turkestani (sovietici provenienti dall’Asia centrale, ndr), disertori dell’esercito tedesco, jugoslavi, cecoslovacchi, alcune staffette di collegamento francesi».

Altre vicende sono invece emerse solo negli ultimi anni, grazie ad alcuni storici e storiche le cui ricerche si sono concentrate sulla composizione internazionale dei gruppi partigiani: hanno mostrato che quelle che in un primo momento potevano apparire come eccezioni o casi isolati erano invece un fenomeno più diffuso, e che quella partigiana fu una lotta contro il nazifascismo essenzialmente cosmopolita: «Mentre i fascisti erano fondamentalmente, in effetti, tutti italiani, i partigiani avevano messo in campo un vero e proprio esercito internazionale», ha riassunto Carlo Greppi.

Nel libro di Greppi e Colombini, attraverso i vari saggi, si racconta per esempio un’ampia partecipazione alla Resistenza dei partigiani jugoslavi, che dopo i sovietici furono il secondo gruppo nazionale tra i non italiani: «In alcune zone dell’Italia centrale, fra Toscana, Marche, Umbria e Abruzzo, hanno rappresentato fino alla Liberazione il nerbo dell’esercito partigiano», scrive lo storico Eric Gobetti nel suo contributo. Furono attivi in Piemonte, tra Liguria, Emilia e Toscana, in Lombardia, Veneto, Romagna, nel Lazio, in Campania, ma anche in Puglia e naturalmente al confine italo-jugoslavo. Erano soprattutto ex prigionieri del regime fascista che furono liberati dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

Fu attiva anche una brigata di soli sinti, un’etnia di origine nomade la cui popolazione venne perseguitata e in parte deportata durante il fascismo. La loro presenza nella Resistenza e le loro storie, racconta lo storico Luca Bravi, ben rappresenta come una comunità storicamente tenuta ai margini e raccontata spesso e solo come un problema sociale ebbe invece una parte significativa nella costruzione della democrazia.

Vi furono poi partigiani tra gli Alleati che erano soprattutto ex prigionieri, e che mentre tentavano di tornare a casa incontrarono la Resistenza e non di rado contribuirono a dar vita ai primi nuclei partigiani. A questi nuclei parteciparono anche centinaia di reduci dalla guerra di Spagna, che si combatté tra il 1936 e il 1939. A loro si aggiunsero migliaia di soldati polacchi, cecoslovacchi, sovietici o tedeschi: erano per lo più disertori delle forze armate della Germania nazista che oltre a rifiutarsi di combattere per il regime nazista fecero la scelta di unirsi ai suoi nemici.

Non tutti i tedeschi partigiani erano ex soldati: fra loro c’erano anche dei civili, come Heinz Riedt.

Riedt era figlio di un diplomatico, era nato a Berlino nel 1919 e dall’età di due anni e fino al 1931 era cresciuto in Italia, per poi completare gli studi in Baviera. Nel 1939 venne arruolato come traduttore in un campo tedesco per prigionieri francesi ma fu poi congedato per motivi di salute. Si trasferì con una borsa di studio a Padova, e lì, durante la guerra, si avvicinò ai partigiani della Brigata GL «Trentin», attiva sui colli Euganei.

Prima passò informazioni come interprete del comando delle SS, le milizie speciali tedesche che avevano compiti di polizia durante il regime, poi partecipò alla fase insurrezionale. Terminata la guerra Riedt si iscrisse all’ANPI e fu scelto dalla casa editrice Einaudi per tradurre in tedesco Se questo è un uomo di Primo Levi: ci riuscì nel 1961, dopo un lungo carteggio con l’autore. Si stima che il numero effettivo di “tedeschi partigiani” in Italia si aggirò intorno ai duemila.

Parteciparono alla lotta contro il nazifascismo anche persone che provenivano dalle ex colonie dell’Italia in Africa. Tra questi Giorgio Marincola, italiano di madre somala morto nell’ultima azione partigiana in Val di Fiemme (Trentino-Alto Adige) nel maggio del 1945; e gli africani che si unirono al Battaglione «Mario», nelle Marche, alla fine del 1943. «Nel corso della storia, esperienze di tipo coloniale hanno spinto diverse persone a considerare il portato internazionale di valori quali la libertà e la giustizia sociale, al punto da indurle a mobilitarsi a sostegno di istanze di cambiamento in contesti che non le riguardavano in maniera diretta», spiegano Valeria Deplano e Matteo Petracci nel loro saggio (uno di quelli dentro al libro di Greppi e Colombini).

I combattenti stranieri si unirono alla Resistenza soprattutto attraverso due canali: la prigionia a cui erano stati sottoposti per vari motivi durante la guerra fascista e la diserzione dalle forze armate tedesche, che riguardò numerose nazionalità. I combattenti stranieri furono comunque in larga parte soldati, con anni di esperienza militare, o militanti con esperienza di guerriglia: con una serie di competenze, dunque, che si rivelarono fondamentali per formazioni spontanee e volontarie come quelle partigiane locali.

Carlo Greppi spiega che le diverse provenienze geografiche dei combattenti stranieri e le storie pregresse che portavano con sé non consentono di raccontare questo fenomeno come qualcosa di omogeneo al proprio interno. Le motivazioni che li spinsero alla lotta «furono tra le più varie e in qualche misura furono speculari a quelle dei partigiani nativi: andavano da una scelta politicamente consapevole in senso antifascista e internazionalista alla pura casualità».

Dobbiamo ricordare, dice Greppi, che questa è la storia di giovani uomini, per lo più maschi, che si ritrovarono sballottati in ogni angolo del pianeta attraverso i due canali principali della prigionia e dell’occupazione: «Vi furono casi in cui colsero la palla al balzo dandosi alla macchia e unendosi alla Resistenza. Vi furono altri casi in cui le motivazioni furono inizialmente pre-politiche e contingenti e in cui la maturazione di una scelta fu graduale». Oltre alla diversità di lingua, oltre alla difficoltà nei contatti con la popolazione, quello che va ricordato e che forse li accomuna tutti, prosegue Greppi, «è che per loro il passo fu in un certo senso più impegnativo da fare che non per la maggior parte dei partigiani nativi, che combatterono nei luoghi in cui erano nati e cresciuti».

Sull’insistenza della dimensione nazionale della Liberazione ha pesato la necessità del riscatto, in un paese come l’Italia che aveva inventato e fatto prosperare il fascismo: il contribuito interno a sconfiggerlo era dunque qualcosa di cui andare fieri e che per decenni è stato messo al centro del discorso. Poiché poi la Resistenza fu una storia di riscatto nazionale, «sottolinearne l’apporto non locale avrebbe rischiato in qualche modo di annacquarne il messaggio potente che fu anche identitario e con una funzione di coesione», dice Greppi, aggiungendo che quello della dimensione internazionalista della Resistenza è uno dei casi più eclatanti di come cioè la storiografia stessa abbia avuto bisogno di tempo.

Al di là di come è andata, concludono Colombini e Greppi nella loro introduzione al libro, «ogni combattente l’ha vissuta a modo suo. Ma nei fatti, nell’essenza delle cose, la guerra partigiana è stata fedele a sé stessa: ha sconfitto armi in pugno un’idea del mondo prevaricatrice ed escludente, anche perché hanno combattuto fianco a fianco più generazioni di uomini e donne, di ogni credo politico e religioso e ceto sociale, e di ogni nazione».