I negoziati tra Stati Uniti e Iran sul nucleare, a Roma
Sull'arricchimento dell'uranio e lo storico accordo del 2015: l'incontro che si è concluso non è stato risolutivo, e ce ne sarà un altro sabato 26

Sabato nell’ambasciata omanita a Roma si è svolto il secondo incontro tra i mediatori di Stati Uniti e Iran per cercare di raggiungere un accordo sul nucleare iraniano. Le posizioni delle due parti sono molto distanti, ma entrambe hanno interesse a negoziare, per motivi diversi: l’Iran è in una posizione di debolezza e beneficerebbe di un allentamento delle sanzioni che pesano sulla sua economia, mentre gli Stati Uniti vogliono approfittarne per trovare un accordo che il presidente Donald Trump consideri favorevole.
Come previsto l’incontro a Roma non è stato risolutivo, anzi: secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi per sabato 26 aprile è previsto un nuovo incontro, il terzo finora, che dovrebbe tenersi in Oman con anche il coinvolgimento di figure più tecniche. Già di per sé il proseguo dei negoziati è visto come un progresso nel dialogo tra Stati Uniti e Iran su questo tema.
Uno dei punti al centro delle discussioni è il rapido avanzamento del programma iraniano per l’arricchimento dell’uranio: è un passaggio fondamentale per costruire un’arma nucleare, ma l’uranio arricchito serve anche per scopi civili, per esempio produrre energia elettrica nelle centrali nucleari. L’Iran ha sempre negato di voler costruire un’arma nucleare, ma negli ultimi anni ha raggiunto livelli di arricchimento vicini al 60 per cento, ben superiori a quelli necessari per qualsiasi altro uso.
L’amministrazione Trump vuole che l’Iran abbandoni completamente il proprio programma di arricchimento dell’uranio, compreso quello per le centrali nucleari, e ha minacciato attacchi militari se non lo farà. L’Iran è disposto a fare concessioni sul programma nucleare, in cambio come detto di un alleggerimento delle pesanti sanzioni economiche. Non ha però intenzione di rinunciarvi del tutto, perché lo considera la sua ultima linea di difesa contro possibili attacchi esterni, per esempio da parte di Israele, suo storico nemico.
I negoziati erano cominciati la settimana scorsa con dei colloqui preliminari in Oman: le due parti avevano parlato per circa due ore, sia direttamente (quindi i rappresentanti statunitensi e iraniani si erano parlati tra loro) sia indirettamente (cioè tramite intermediari).
Ai colloqui di Roma era previsto che si sarebbe cominciato a parlare di questioni più concrete, ma senza il coinvolgimento di esperti e tecnici. Alla fine dell’incontro il ministro degli Esteri iraniano ha detto che è stato positivo e che è stata trovata «una migliore intesa su una serie di principi e obiettivi». Prima aveva incontrato il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani.
La delegazione degli Stati Uniti era guidata da Steve Witkoff, un vecchio amico e collega d’affari di Trump che non ha esperienze diplomatiche pregresse. Witkoff è l’inviato speciale di Trump per il Medio Oriente, ed è stato posto anche a capo dei negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina e per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Esattamente come non aveva grande conoscenza della situazione in Ucraina, Witkoff non ha alcuna esperienza nella politica iraniana.

L’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff (Ludovic Marin, Pool Photo/AP)
Il negoziato sul nucleare è inoltre molto tecnico, perché le discussioni vertono su livelli di arricchimento dell’uranio, tecnologia delle centrifughe e dettagli per la produzione di una bomba atomica: Witkoff non sembra possedere nessuna delle conoscenze scientifiche e tecnologiche richieste.
Che la situazione gli stia un po’ sfuggendo di mano, almeno dal punto di vista tecnico, lo si è visto questa settimana: lunedì, in un’intervista alla rete televisiva conservatrice Fox News, Witkoff aveva fatto capire che gli Stati Uniti erano pronti a concedere all’Iran livelli di arricchimento dell’uranio al 3,67 per cento, appena sufficienti per produrre energia nelle centrali ma non per una bomba nucleare (in cui l’uranio deve essere arricchito in percentuali intorno al 90 per cento). Questo era stato interpretato come un grande segnale d’apertura da parte dell’amministrazione Trump.
Il giorno dopo però Witkoff ha smentito tutto, dicendo che il programma nucleare iraniano deve essere completamente smantellato. «Un accordo con l’Iran sarà realizzato soltanto se sarà un accordo alla Trump», ha scritto, alludendo alla presunta maestria del presidente nei negoziati (che di recente è stata ampiamente smentita dalle caotiche e inconcludenti trattative dai dazi, tra le altre cose).

Il presidente iraniano Massoud Pezeshkian, il secondo da destra, ispeziona dei siti nucleari il 9 aprile 2025 (Iranian Presidency Office via AP)
Come detto negli ultimi anni l’Iran ha fatto avanzare rapidamente il suo programma nucleare, al punto che secondo gli Stati Uniti ora basterebbero al paese un paio di settimane per raggiungere il livello di arricchimento dell’uranio sufficiente per creare una bomba nucleare, più qualche mese per la costruzione effettiva dell’arma (cioè per prendere il materiale fissile e metterlo su un missile).
La situazione attuale è in parte una conseguenza dell’operato di Trump durante il suo primo mandato (2017-2021). Nel 2015 l’allora amministrazione di Barack Obama fece uno storico accordo con l’Iran che consentiva al paese di arricchire l’uranio per scopi civili, fino a un livello massimo del 3,67 per cento, e stabiliva rigidi controlli in cambio della sospensione delle sanzioni economiche, che stavano danneggiando enormemente l’economia del paese. Nel 2018 però Trump uscì unilateralmente dall’accordo, sostenendo che non fosse conveniente per gli Stati Uniti, e reintrodusse sanzioni ancora più dure.
Ora l’Iran è disposto a trattare con gli Stati Uniti perché si trova in una posizione di grande debolezza: negli ultimi anni gli attacchi di Israele contro i sistemi di difesa iraniani e contro tutti i suoi maggiori alleati nella regione, come Hamas ed Hezbollah, e la caduta del regime siriano di Bashar al Assad lo hanno reso più debole e più esposto ad attacchi esterni. Inoltre la sua economia è in pessime condizioni, con un’inflazione superiore al 30 per cento e un’altissima disoccupazione: il paese avrebbe un bisogno disperato di alleggerire le sanzioni che limitano fortemente la sua possibilità di commerciare con l’estero, soprattutto per quanto riguarda il petrolio, di cui è uno dei principali produttori mondiali.
Trump si è accorto di queste debolezze, ed è convinto di poter negoziare da una posizione di forza per fermare l’avanzamento del programma nucleare iraniano e ottenere un accordo migliore, secondo lui, di quello fatto da Obama.
L’Iran è governato da un presidente cosiddetto riformista, Massoud Pezeshkian, che è aperto alla possibilità di trovare un accordo con l’Occidente. La carica politica e religiosa più importante del paese è però Ali Khamenei, la Guida suprema, di orientamento ultraconservatore (in Iran non esistono i partiti, ma varie formazioni riconducibili a correnti di pensiero). Khamenei si è sempre opposto al dialogo con l’Occidente e in particolare con gli Stati Uniti, ma ora ha permesso l’avvio dei negoziati, pur continuando a criticarli.
In Oman i negoziatori iraniani hanno fatto una proposta che di fatto ricalca l’accordo di Obama del 2015, con un arricchimento dell’uranio al 3,67 per cento e ampie garanzie di controlli internazionali. Trump quell’accordo l’ha sempre definito «inaccettabile», e quindi cercherà di ottenere qualcosa di ben diverso.
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