Chi è e cosa vuole fare il prossimo ambasciatore statunitense in Italia

Tilman Fertitta ha spiegato su cosa incalzerà il governo di Meloni: petrolio, spesa militare e rapporti con la Cina

Tilman Fertitta al termine della partita di NBA tra gli Houston Rockets, squadra di cui è presidente, e i Phoenix Suns, il 15 marzo 2019 (Tim Warner/Getty Images)
Tilman Fertitta al termine della partita di NBA tra gli Houston Rockets, squadra di cui è presidente, e i Phoenix Suns, il 15 marzo 2019 (Tim Warner/Getty Images)
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Lo scorso primo aprile si è svolta al Senato di Washington l’audizione di Tilman Fertitta, l’ambasciatore statunitense per l’Italia designato da Donald Trump. È il primo passo del cosiddetto confirmation process, cioè il processo di convalida, a cui sono abitualmente sottoposti gli ambasciatori: il Senato li ascolta, li interroga, poi si esprime sull’attribuzione dell’incarico con un voto che è vincolante. Se, come è piuttosto scontato, Fertitta verrà confermato nei prossimi giorni, presenterà poi le proprie credenziali a Sergio Mattarella: è prassi che un diplomatico chieda questa sorta di autorizzazione al capo dello Stato nel quale andrà a lavorare. Terminati questi passaggi formali, verosimilmente tra fine maggio e inizio giugno Fertitta prenderà servizio nell’ambasciata a Roma, in via Veneto.

Come sempre accade, l’audizione al Senato è stata l’occasione non solo per una presentazione ufficiale di Fertitta, ma anche per una discussione in cui sono emerse le principali preoccupazioni dell’establishment statunitense sull’Italia, e l’approccio con cui il futuro ambasciatore intende affrontarle. I temi su cui Fertitta è stato sollecitato sono stati in particolare la spesa militare dell’Italia, giudicata troppo bassa, i rapporti commerciali e politici ancora attivi dell’Italia con la Cina, la necessità – almeno per Fertitta – che incrementi gli acquisti di energia dagli Stati Uniti.

Tilman Fertitta a Westlake Village, California, il primo aprile 2016 (Michael Tran/FilmMagic)

Fertitta ha anzitutto letto la sua “testimonianza”, cioè una lettera nella quale si presenta formalmente al Senato e definisce i suoi impegni futuri. Come quasi sempre succede, anche stavolta per l’Italia non è stato scelto un diplomatico di carriera come ambasciatore, ma un grande finanziatore del presidente eletto. Fertitta ha 67 anni ed è texano di Galveston, discendente di una famiglia siciliana emigrata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. È un uomo molto ricco da tempo impegnato nel sostenere Trump: possiede centinaia di ristoranti e una delle principali catene di hotel di lusso americane, la Landry’s, e ha alle sue dipendenze oltre 50mila lavoratori. È anche il proprietario della squadra di basket degli Houston Rockets.

Tutti questi suoi successi imprenditoriali Fertitta li ha elencati nella sua lettera di presentazione, che è un po’ atipica. Succede spesso infatti che gli ambasciatori designati si soffermino anche su aspetti della propria vita privata, ma nella lettera di Fertitta questa parte autobiografica è stata largamente preponderante ed è descritta con toni molto autocelebrativi. Da questo punto di vista la differenza con le analoghe lettere degli ambasciatori designati per Turchia e Regno Unito, ascoltati dal Senato insieme a Fertitta, è stata abbastanza notevole.

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Con lui arriveranno anche dei nuovi dirigenti. Tra gli altri, sono attesi Marta Youth, una diplomatica di lungo corso che assumerà l’incarico di vice capo missione (cioè sarà la seconda nella gerarchia dell’ambasciata dopo Fertitta), e Stephen Anderson come consigliere degli affari economici, ruolo che svolge da più di due anni all’ambasciata statunitense a Berlino, dove è attualmente vice capo missione.

Uno dei passaggi più significativi dell’audizione di Fertitta ha riguardato la politica energetica italiana. Fertitta è stato esplicito nel dire che «ci piacerebbe che l’Italia facesse molti più affari con le nostre aziende americane anziché acquistare così tanta energia dalla Libia e da altri paesi». La Libia è rilevante per il mercato energetico italiano soprattutto per il petrolio: nel 2024 è tornata a essere il principale fornitore, in un contesto in cui l’importazione è aumentata da tutti i paesi africani, che nel complesso forniscono all’Italia il 38 per cento di tutti i 14,5 milioni di tonnellate di petrolio acquistato dall’estero.

Per Fertitta è proprio sul petrolio che bisogna puntare. L’imprenditore texano ha spiegato di aver già parlato con i manager delle principali compagnie petrolifere di Houston, e di non vedere l’ora di discutere coi responsabili del settore del governo italiano «per vedere cosa possiamo fare per creare più affari e portare il divario commerciale da 45 miliardi di dollari a molto meno».

La questione sollevata da Fertitta è importante non solo per le implicazioni dirette sulle politiche energetiche dell’Italia, ma anche perché si collega al più generale problema dei dazi. Quel dato citato, i 45 miliardi di dollari, sono grosso modo la differenza tra ciò che l’Italia esporta negli Stati Uniti e ciò che da lì importa: questo genere di disavanzo è una delle ragioni che hanno indotto Trump a imporre i dazi. Dal discorso di Fertitta emergono maggiori possibilità di negoziazione, anche se al momento è presto per fare ipotesi.

L’altro tema critico, che è del resto ricorrente nelle lamentele che le varie amministrazioni statunitensi rivolgono all’Italia, è quello degli scarsi investimenti nella difesa. Dal 2014 i membri della NATO, l’alleanza militare di cui fanno parte gli Stati Uniti e gran parte dei paesi europei, si sono impegnati ad aumentare la propria spesa militare fino ad almeno il 2 per cento del proprio prodotto interno lordo (PIL). Di recente Trump ha chiesto addirittura che si arrivi al 5 per cento, una quota ritenuta per il momento piuttosto inverosimile un po’ per tutti (gli stessi Stati Uniti investono nella difesa il 3,5 per cento del PIL). La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen di recente ha fissato un obiettivo più realistico del 3 per cento per i paesi europei.

Fertitta ha detto di voler affrontare la questione, ma ha anche provato a ridimensionare le pretese nei confronti dell’Italia. Ha sostenuto che l’Italia, come altri paesi della NATO, stia cercando di barare un po’ coi bilanci (ha detto che sta facendo «some fuzzy math», cioè degli esercizi di matematica un po’ confusi) per arrivare al 2 per cento, e che l’obiettivo del 5 per cento resta piuttosto lontano: l’Italia attualmente spende poco meno dell’1,6 per cento del PIL in difesa. Fertitta ha però ricordato che l’Italia è stata sempre pronta a inviare truppe in giro per il mondo quando gli Stati Uniti ne hanno avuto bisogno e che anche per questo, essendo un alleato fedele, «dovremmo darle un po’ di credito».

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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni in visita da Donald Trump a Mar a Lago, il 5 gennaio 2025 (Filippo Attili/LaPresse)

È una concessione non banale, che riflette la tesi da anni sostenuta dall’Italia per difendersi dalle accuse statunitensi in quest’ambito: i contingenti italiani sono infatti i più numerosi tra quelli impiegati dai vari membri della NATO, anche più di quelli degli Stati Uniti (che tuttavia partecipano spesso alle missioni condivise con proprie truppe e mandati specifici che vanno oltre il perimetro della NATO). Fertitta ha inoltre aggiunto come fattore positivo il fatto che l’Italia è impegnata nel contrasto all’immigrazione irregolare: ha citato la crisi in Tunisia e quella in Libia, ha fatto riferimento a Lampedusa e ai centri in Albania, e ha detto che le motovedette impegnate in quell’area «proteggono tutta l’Europa».

In ogni caso, anche riconoscendo all’Italia queste attenuanti, Fertitta ha ribadito che si impegnerà a discutere col governo italiano e fare in modo che arrivi al 2 per cento delle spese nella difesa entro la fine del suo mandato da ambasciatore a Roma.

Fertitta ha poi parlato di un’altra questione molto delicata: i rapporti diplomatici e commerciali tra Italia e Cina. Nel 2019 la diplomazia statunitense fu piuttosto infastidita quando il primo governo di Giuseppe Conte firmò con la Cina il memorandum cosiddetto della “Via della Seta”, chiamato anche Belt and Road Initiative: un accordo commerciale ma dal grande valore politico, che l’Italia fu l’unico paese del G7 e l’unico grande paese europeo a voler firmare, generando grosse proteste da parte degli Stati Uniti.

Consapevole di ciò, Giorgia Meloni non ha rinnovato l’accordo, ma per non subire ritorsioni dalla Cina ha al contempo definito un Piano d’azione per rilanciare il Partenariato strategico, cioè una sorta di accordo commerciale privilegiato che era stato inizialmente promosso nel 2004 da Silvio Berlusconi. Un senatore durante l’audizione di Fertitta ha espresso preoccupazioni anche per questo accordo.

Fertitta ha detto che l’uscita dalla Via della Seta è una buona notizia, ma anche che ancora non basta. «Mi preoccupa il fatto che ci siano anche 11 stazioni di polizia cinesi in giro per l’Italia», ha detto, facendo riferimento alle cosiddette “stazioni di polizia virtuale”, cioè quelle strutture che si presentano come centri di sostegno amministrativo e logistico per le comunità cinesi all’estero, ma che di fatto in molti casi svolgono funzioni di controllo, repressione e spionaggio sul territorio di altri paesi su mandato più o meno diretto del regime cinese. Non è del tutto certo quale sia il numero di queste stazioni in Italia, in realtà.

Fertitta ha osservato con preoccupazione anche il fatto che l’Italia non voglia prendere posizione contro Xi Jinping, ma ha spiegato che del resto un po’ tutti i paesi, per un motivo o per l’altro, vogliono tenersi buona la Cina. In ogni caso, Fertitta ha garantito che intende darsi da fare per assicurarsi che gli Stati Uniti restino il principale alleato dell’Italia.

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