Cosa rischia una dipendente che fa i video su OnlyFans?

Il licenziamento, in certi casi, anche se non sempre può ritenersi una giusta causa: la giurisprudenza è ancora incerta

(REUTERS/Carlos Barria)
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Le storie di donne che vengono licenziate o devono dimettersi dopo che colleghi o datori di lavoro scoprono il loro profilo su OnlyFans, la più popolare piattaforma per pubblicare contenuti porno in cambio di soldi, sono diventate negli ultimi anni una nicchia giornalistica. A una venticinquenne veronese per esempio non è stato rinnovato il contratto stagionale a Gardaland dopo che il capo del personale le aveva detto che le sue attività su OnlyFans «non si addicono all’immagine che il parco vuole dare all’esterno». Ancora più attenzioni ha attirato il caso recente di Elena Maraga, maestra di una scuola per l’infanzia paritaria cattolica in provincia di Treviso, sospesa dall’insegnamento perché accusata di condotta non etica dopo che alcuni genitori avevano scoperto il suo profilo su OnlyFans.

La risposta alla domanda se il licenziamento sia legittimo in situazioni simili varia molto di caso in caso, in particolare in base al tipo di datore di lavoro da cui si viene assunti e alla sottoscrizione di eventuali codici di comportamento. Quella di introdurre regolamenti di questo tipo è però una consuetudine adottata soprattutto all’estero, nelle grandi aziende multinazionali o nella pubblica amministrazione. In Italia invece in questi casi si guarda soprattutto al codice civile e alle sentenze della Corte di Cassazione che ne suggeriscono l’interpretazione.

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Gli articoli che si citano più spesso in questi casi sono il 2104 e il 2105 del codice civile, che deve rispettare chi lavora in Italia. Dicono che i lavoratori hanno un obbligo di fedeltà, obbedienza e diligenza nei confronti dei datori di lavoro. In sostanza, hanno due obblighi principali: devono tutelare il rapporto fiduciario (ovvero il legame di fiducia che costituisce il fondamento del rapporto di lavoro) ed evitare di compromettere la reputazione o la credibilità dell’azienda. I datori di lavoro possono sanzionare i dipendenti che a loro avviso non hanno rispettato questi obblighi, ma devono tenere a mente che la sanzione deve essere adeguata alla gravità del fatto,  e ovviamente il lavoratore può fare ricorso.

Nel caso un datore di lavoro ritenga che il comportamento extralavorativo del dipendente sia stato grave e lesivo al punto da giustificare un licenziamento per giusta causa, ma questo non sia d’accordo, sta a un giudice valutare se la decisione è corretta o meno.

«Il tema del vincolo fiduciario va circoscritto proprio perché altrimenti sarebbe troppo ampio e permetterebbe ai datori di lavoro di sanzionare i dipendenti anche per questioni meramente private», spiega Mirko Altimari, professore di Diritto del lavoro all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. «Un datore di lavoro può insomma licenziarmi per una condotta che non attiene direttamente alla mia prestazione lavorativa, ma con molti paletti». Lo stesso vale per il tema della reputazione e della credibilità dell’azienda: anche in quel caso, dice Altimari, è il giudice – in caso di ricorso – a decidere se il comportamento del dipendente abbia effettivamente leso l’immagine dell’azienda, e quindi se il licenziamento “per giusta causa” sia valido.

I casi di questo tipo che arrivano in tribunale riguardano spesso situazioni molto più serie rispetto a quella di un dipendente che pubblica contenuti porno su OnlyFans. Nel dicembre del 2024, per esempio, la Corte di Cassazione ha confermato il licenziamento di un autista di autobus romano deciso dopo una condanna per maltrattamenti nei confronti della moglie. Lo scorso maggio, invece, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un uomo che era stato trovato in possesso di un piccolo quantitativo di droghe illegali durante un controllo stradale, nel suo tempo libero.

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Pubblicare contenuti a sfondo sessuale a pagamento su OnlyFans o piattaforme simili in Italia non è in alcun modo illegale, a patto che il creatore di contenuti in questione paghi le tasse sui soldi guadagnati. Nonostante milioni di persone guardino porno ogni giorno, però, chi crea e condivide contenuti a sfondo sessuale è ancora soggetto a forti giudizi e ritorsioni, con gravi conseguenze anche sul piano professionale.

Molto spesso, chi fa questo genere di sex work lo fa a tempo pieno, in proprio, e quindi non ha un datore di lavoro di cui preoccuparsi. Chi invece ha un altro lavoro, o chi vorrebbe averlo in futuro, si scontra contro il fatto che molte aziende, a causa dello stigma, non vogliono essere associate in alcun modo al sex work. Sempre più spesso, peraltro, è difficile nasconderlo, perché chi assume controlla la presenza online dei candidati prima di assumerli.

A questo si aggiunge il fatto che ci sono varie professioni che sono particolarmente difficili da intraprendere per chi fa sex work, tra cui molte di quelle che richiedono l’iscrizione a ordini professionali che hanno codici etici stringenti. Nel maggio del 2023, per esempio, un’avvocata di Torino è stata sospesa dall’ordine per 15 mesi per il suo comportamento sui social network, dove aveva un profilo da influencer molto seguito, su cui pubblicava foto sexy, ma non sessualmente esplicite. In quel caso, l’avvocata aveva detto che non si aspettava una sospensione così lunga: «è la prima volta che accade in Italia. Neanche i colleghi che commettono un reato sono puniti per così tanto tempo».

Il fatto che avere un profilo da creator su OnlyFans non sia illegale, insomma, non protegge necessariamente da eventuali sanzioni disciplinari in caso venga scoperto dai datori di lavoro. Perché un licenziamento sia considerato legittimo, infatti, è sufficiente che la condotta del lavoratore danneggi il vincolo fiduciario al punto tale da non consentire nemmeno temporaneamente la prosecuzione del rapporto di lavoro, di solito perché considerata contraria alle norme dell’etica e del comune vivere civile.

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Sul suo sito, l’azienda specializzata in consulenze relative alle risorse umane Si Italia fa l’esempio di una dipendente scoperta nell’atto di girare video porno nei bagni dell’ufficio. «Volendo tracciare una linea, risulta chiaro che un dipendente che giri video pornografici sul luogo di lavoro, (…) togliendo quindi tempo ai suoi obblighi lavorativi, può essere certamente e legittimamente licenziato», si legge.

Il caso di una persona che crea questi contenuti fuori dall’orario lavorativo, però, è diverso, scrivono. In quel caso, secondo Si Italia può esserci la giusta causa solo quando ci sia un oggettivo conflitto tra l’attività lavorativa o gli interessi dell’azienda e l’apparizione della dipendente in un video porno.

Nel caso di Elena Maraga, la maestra di Treviso, si aggiunge poi un ulteriore elemento da prendere in considerazione. «Ci sono dei casi in cui la specificità del datore di lavoro implica che ai dipendenti venga richiesta un’adesione a certi ideali più alti rispetto a un’azienda qualunque: pensiamo a quelle organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, religiosa», dice Altimari, che fa l’esempio del dipendente di un sindacato che facesse campagna elettorale per un partito politico di orientamento opposto. Le scuole cattoliche, come quella per cui lavora Maraga, rientrano nella categoria di “organizzazioni di tendenza”, e quindi possono chiedere legittimamente ai dipendenti una maggiore coerenza tra i valori del cattolicesimo e i comportamenti extralavorativi.

Per evitare di trovarsi davanti a situazioni ambigue o legalmente complesse, comunque, negli ultimi anni un numero crescente di aziende e istituzioni ha adottato regolamenti e codici etici che si applicano ai dipendenti e che sempre più spesso indicano anche il comportamento da seguire online. In seguito al caso di Maraga, sia la Federazione Italiana Scuole Materne di Treviso che il ministero dell’Istruzione hanno detto che stanno lavorando a nuove regole che indirizzino il comportamento dei docenti sul web.

I dipendenti pubblici sono infatti soggetti a un Codice di comportamento che stabilisce tra le altre cose che i lavoratori non possono assumere alcun comportamento che possa «nuocere all’immagine dell’amministrazione», anche sui social network. Chi lavora nell’amministrazione pubblica ha inoltre l’obbligo di comunicare tutti i propri rapporti di collaborazione retribuiti, incluso quindi un eventuale profilo su OnlyFans.

L’avvocato Alessandro Vercellotti, specializzato nella consulenza di figure professionali che lavorano online, racconta che negli ultimi anni ha assistito varie persone che lavoravano nelle scuole o nella pubblica amministrazione e che volevano trovare un modo di aprire un profilo su OnlyFans per avere un’entrata economica ulteriore senza però rischiare il licenziamento. «Una delle soluzioni più frequenti è evitare di usare riferimenti anagrafici di qualsiasi tipo, come nome e cognome, e di mostrarsi solo con il viso coperto», dice. «In questo modo si può comunque portare traffico sul proprio profilo, approfittando anche dell’effetto vedo-non-vedo che piace».

Quello di pensarci molto bene prima di mostrare il viso e altri tratti distintivi, come i tatuaggi, in foto e video a sfondo sessuale pubblicati online è una delle principali raccomandazioni che si condividono spesso con chi vuole cominciare a fare sex work. Nel caso delle persone che lavorano nella pubblica amministrazione in Italia, però, pubblicare contenuti porno a pagamento nascondendo l’identità, e quindi anche senza comunicare ai datori di lavoro la propria ulteriore fonte di reddito, resta vietato.