La mia vita con le afte
«Nessuno come loro, in questi trentaquattro anni, mi ha tenuto tanto compagnia. Come quella in terza elementare, che mi indusse a rifiutare per quasi dieci giorni gli inviti dei miei compagni. Crescevo, capivo, soffrivo, amavo, ed erano sempre lì»

Della prima afta della mia vita, manifestatasi al lato del frenulo labiale inferiore, di una grandezza compresa tra i cinque e i dieci millimetri, ricordo solo un dolore pungente, vivo, e il responso di mia madre quando le chiesi a cosa fosse dovuto: «È un’afta, ne soffriamo in famiglia. Una condanna, abituatici».
Afta: s. f. [dal lat. tardo aphthae, pl., gr. ἄϕϑαι «pustole»]. – 1. In medicina: a. Lesione vescicolare, prob. dovuta a un virus, della mucosa orale, che rompendosi dà luogo a una piccola ulcerazione di aspetto biancastro.
Al tempo avevo cinque anni, e se mia madre mi avesse avvertito che, oltre a cause legate allo stress, erano i cibi fritti, piccanti, acidi, come i pomodori o, soprattutto, il cioccolato a favorire la presenza delle afte, avrei di certo provato a contenere la comparsa di quelle abrasioni rotonde e meschine nella mia bocca. Contenere, non eliminare. Perché, dopo ventotto anni da quella prima apparizione, nonostante abbia letto diversi articoli scientifici ricavati da convegni su afte e stomatiti aftose, parlato con amici tormentati da patologie simili, consultato il medico di base, un medico omeopata, un pranic healer, una theta healer, uno psicoterapeuta e aver sperimentato letteralmente qualsiasi rimedio mi sia stato consigliato – dal sale grosso alla tintura di iodio, dagli impacchi di aloe agli spray a base di propoli, dai collutori agli integratori vitaminici, fino a prodotti come l’Alovex e il Corti-Fluoral – ancora oggi un’afta, minuscola e apparentemente insignificante, è in grado di rovinarmi una giornata, a volte una settimana, facendomi desiderare l’amputazione di un labbro, della lingua, di una guancia, o addirittura la decapitazione, quando gli effetti diventano cefalalgici.
Insomma, un’afta può devastarmi la vita. E, allo stesso tempo, può scandirla la mia vita. Perché, nonostante il monito di mia madre, abituarmi alle afte mi fu impossibile. Semmai dovetti imparare a considerarle una parte di me, un’infida creatura del mio corpo che era necessario interpretare e anticipare, se possibile tollerare. E così, non esagero se dico che le afte, per me, ci sono sempre state. Anzi, nessuno come le afte, in questi trentaquattro anni, mi ha tenuto tanto compagnia. Crescevo, capivo, soffrivo, amavo, e le afte erano sempre lì. Facendosi sentire come un sussurro insistente, una protesta silenziosa contro ogni morso o bacio, una presenza minuta ma tirannica, in grado di trasformare il semplice atto del parlare in un esercizio di pazienza.
Come per esempio quella in terza elementare, che mi indusse a rifiutare per quasi dieci giorni gli inviti dei miei compagni di classe che mi chiedevano di pranzare da loro, giocare da loro, dormire da loro, e a rendermi più taciturno del solito, quasi muto, durante le lezioni. Il tutto a causa di un’afta sulla parete linguale – forse dovuta alle troppe barrette di cioccolato bianco Galak che all’epoca mangiavo senza inibizioni. A ogni minimo movimento, o parola pronunciata, quel piccolo cratere candido dal bordo arrossato mi provocava una stilettata nervosa che partiva dalla bocca e arrivava fin dietro agli occhi, facendomi lacrimare.
«Paolo», mi disse la maestra all’apice di quella tortura, «ti sei immalinconito tutto a un tratto?». No, feci con la testa, attento a non alterare l’equilibrio motorio della mia cavità orale, ma non contenta di quella risposta lei chiamò mia madre per sapere se a casa andava tutto bene. «E quindi te ne staresti molto sulle tue ultimamente… e come mai?», mi chiese mia mamma appena la raggiunsi all’uscita di scuola. Non risposi nulla, limitandomi a disserrare le labbra e ad allungare la lingua di lato in modo che potesse scorgerne il fianco e notare la lesione che mi perseguitava. «Ah», fece, con un’espressione di simulato dolore. Poi, come se stesse per esibire qualcosa di cui vergognarsi, guardando scenicamente da una parte all’altra della strada, si afferrò il labbro inferiore con le due mani e mi mostrò due scintillanti piaghe giallognole e ovali nello stesso punto in cui, circa due anni prima, anch’io ero stato battezzato dalle afte. Sorrisi, nonostante la sofferenza che mi provocasse sorridere. Sorrise anche lei, richiudendo la bocca e stringendomi la mano durante tutto il tragitto verso casa.
O come qualche anno dopo, avrò avuto undici anni, quando di fronte a una perdurante e pallida afta dal bordo infuocato spuntata sul frenulo labiale, una piccola voragine che sembrava pulsare con un respiro proprio, mio padre decise di portarmi con sé alla visita con il suo omeopata di fiducia. In quel periodo mio papà era spesso fuori casa per lavoro, e quindi stanco, distratto, dolente, teso, e non passavamo molto tempo insieme, perciò l’idea di accompagnarlo mi entusiasmò.
Entrati nello studio del dottore, puntellato da quadretti pieni di forme orientaleggianti e attestati di formazione, mi venne chiesto di aprire la bocca e mostrare l’afta che in quel momento mi angosciava. «Capisco», mormorò il medico, e io mi chiesi se fosse soltanto una formula per anticipare una diagnosi o se capisse davvero il mio patimento, se comprendesse sul serio cosa significasse convivere con la sensazione di una spina invisibile sempre pronta a penetrare nella carne viva. Il dottore tornò a sedersi alla scrivania e iniziò a prescrivermi delle medicine omeopatiche: gocce, granuli, pasticche, una miscela di preparati da assumere la mattina e la sera. Mi disse anche che avrei dovuto tentare di evitare di mangiare i formaggi stagionati, gli anacardi, la soia, e tutta una serie di cibi che contenevano l’istamina, una molecola che favoriva l’infiammazione. Quando ebbe finito mio padre mi chiese di uscire, aveva bisogno di parlare con il dottore. Lo attesi nella sala d’aspetto. Cinque minuti dopo finì e ce ne andammo, diretti a una farmacia vicino casa.
Al banco mio papà comunicò al farmacista l’elenco dei medicinali di cui avevamo bisogno e quando venne il momento di pagare e il conto era più di cento euro, sentii mio padre lamentarsene, «Così tanto?», per poi allungare il suo bancomat al commesso, in silenzio, rabbuiato. Provai un’emozione complessa, un misto di amore per mio padre e di dispiacere nel vederlo contrariato. Mi intristii. Se avessi avuto dei soldi avrei contribuito alla spesa. Anche a casa, quando mia madre gli chiese come fosse andata, rispose: «Bene. Gli ha prescritto delle cose. Certo tra i medicinali e la visita, più di 150 euro». Così, trascorso circa un mese e mezzo, nonostante la cura avesse effettivamente diminuito la frequenza delle afte – forse per la dieta o forse per le medicine in sé – quando i miei genitori mi chiesero se dovessero ricomprare i flaconi e le compresse, tentennai, fui cauto sui benefici dell’omeopatia, minimizzai i progressi, dissi loro di aspettare. «Aspettiamo, allora», mi assecondarono subito. Ma non tornammo sull’argomento. Non ci furono più rimedi omeopatici, visite, tentativi. Le afte, quelle sì, persistettero. Le afte, e i sensi di colpa.
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E più avanti, ormai adulto, esaltato dalla lettura di un grande romanzo sudamericano contemporaneo, che parlava di medium, magia, demoni, incubi, orrori, mi feci dare da un’amica il numero di quella che in varie chiacchiere era stata definita “la maga di Latina”. Una donna che lavorava con le energie, con il corpo, che pareva indovinasse cose, che scavasse nel passato, che facesse predizioni. Magari, oltre a soddisfare una curiosità per l’occulto che la lettura del romanzo aveva alimentato, avrei potuto chiederle un rimedio esoterico per le afte che mi vessavano di continuo. Scrissi alla maga su WhatsApp – la sua immagine del profilo era una mezzaluna dorata sormontata da una croce egizia – poi la chiamai e prendemmo appuntamento.
La incontrai in una domenica di inverno dal cielo grigio, uniforme e pesante, in un quartiere di villini bifamiliari che non avrebbe potuto essere più impersonale. Provavo una certa adrenalina, che diventò esaltazione quando la donna, appena mi vide, ancora sulla soglia, mi disse che avevo una bella energia, e subito dopo mi chiese se per caso avessi una sorella più grande – in effetti sì, ho una sorella più grande. Poi, dopo avermi domandato se «potesse leggermi», iniziò a rivelarmi una successione di cose su di me e sulla mia famiglia, alcune sorprendentemente vere («vedo tua madre annoiata in questo periodo, appassita, distante»); altre piuttosto plausibili («hai una bella manualità… artistica dico, perché ad appende’ un chiodo nun ce pensi pe’ niente»); alcune difficili da decifrare («dietro di te scorgo Napoleone, deve ave’ attraversato il tuo vissuto»).
Poi, quando mi chiese se fossi interessato ad affrontare con lei una questione più specifica, le parlai delle afte. Mi parve delusa. Sperava facessi ricorso alle sue doti per qualcosa di più di un intervento antalgico. In ogni caso si limitò a tirar fuori da un cassetto una bacchetta che mi parve di cristallo, lunga come il palmo di una mano, incastonata di pietre colorate, che iniziò ad agitare verso di me. Eccola, finalmente, la mia Hermione dell’Agro Pontino. «Ti sto purificando», mi informò. E un attimo dopo, impugnando il cellulare e digitando per qualche minuto, aggiunse: «Hai tre possibilità». Immaginai riti sciamanici, formule spiritiche, ipnotismi, e invece la maga mi propose: «Puoi prendere la Microflarina, un concentrato vegetale che agisce sulla flora batterica. O l’ashwagandha, una delle più potenti piante curative utilizzate nella medicina ayurvedica. Oppure te compri una pianta de aloe e quando c’hai le afte ce spalmi sopra la polpa». Ci fu un momento di silenzio e allora la maga, come se potesse percepire la mia impazienza, iniziò a oscillare la bacchetta tra il telefono e me: «Sto sondando il tuo chakra per indicarti il giusto medicamento». Ma certo, fai pure pensai. «Co’ l’aloe non ti sbagli, vai co’ quella e le afte passeranno. Lo vedo», sentenziò. Benissimo, se lo vede, aloe sia, le risposi. Poi le allungai cinquanta euro sul tavolo e mi congedai.
Tornato a Roma però, non del tutto convinto del responso della bacchetta, comprai sia la pianta di aloe che la Microflarina e l’ashwagandha, acquisti che sommati al compenso per la prestazione della maga generarono un totale di centoquaranta euro e mi fecero ripensare all’amarezza provata da mio padre tanti anni prima. Perdonami papà, mi prostrai mentalmente, rinnovando una volta ancora il mio contratto con i sensi di colpa. Nelle settimane successive provai tutto, con l’aspettativa di chi osserva il cielo la notte di San Lorenzo alla ricerca di stelle cadenti. Ma, tranne una tregua di circa un mese, non cambiò niente, e di esoterico ci fu solo l’afta che mi venne sull’arco palatoglosso, meschina come una placca sulla tonsilla, una cosa mai vista prima. La condanna dalla quale mi aveva messo in guardia mia madre perdurava. Neanche la magia, di fronte a quegli antichi spiriti del tormento, poteva nulla. O forse era a Napoleone che dovevo rivolgermi.
Mentre scrivo questo racconto ho tre afte nella bocca: una sulla congiunzione tra labbro inferiore e labbro superiore; una, lieve, sul pavimento orale; e un’altra sulla superficie della lingua. Mi sono convinto che siano dovute a un fine settimana di formaggi stagionati e vino rosso, ma la verità è che non so più cosa pensare.
Credo di aver visto tutti i video su Instagram e TikTok che propongono diagnosi, antidoti, terapie (Ti capita di avere afte? Rimedi naturali, Le afte, cosa sono e come combatterle, How to get rid of canker sores), come intrugli di curcuma e miele, diete senza glucosio, gel al cortisone, spray all’acido ialuronico. Guardando questi contenuti ho visto afte ben peggiori delle mie, simili a creature aliene, da cui in alcuni casi uscivano fiotti di pus, caratterizzate da tumescenza e rossore. Confesso di essermi sentito meno solo, e un po’ più fortunato. E allora ho capito che era quello, per me, l’unico modo per alleviare il supplizio: immergermi nel martirio altrui e trarne conforto.
Un po’ di tempo fa sono finito su un thread di Reddit nominato Ma voi come le curate le afte?, ed è stato stupefacente. Decine di commenti in cui mi sembrava di rileggere la mia storia e quella delle mie afte. La nostra storia. Una cascata di aneddoti, suggerimenti e gridi disperati che mi ha fatto quasi commuovere, come nel caso di Resident719, che scriveva:
«Grande portatore di afte qui. Una volta ho avuto per le mani un fantastico spray alla lidocaina che veniva dalla Francia: lo spruzzavi sull’afta e non sentivi niente per ore, incredibile!».
O HourFlow665, che commentava:
«Anche l’alcol anestetizza, di recente mi sono sciacquato la bocca con una grappa polacca a cinquanta gradi e ha funzionato, però brucia un casino, non consiglio. In ogni caso, mi sono convinto che le afte non mi abbandoneranno mai».
Ma anche Relevant996, che diceva:
«Sono un compagno di afte. Ne avevo una, che ho cercato di curare con un collutorio e che purtroppo deve avermi causato una sorta di reazione allergica alle labbra, poiché in poco tempo sono diventate quattro o cinque. Un massacro. Avevo difficoltà anche a bere un bicchiere d’acqua. Rimedi pochi. Sofferenza tanta».
Fino a Orion_551, che dava voce a una rassegnazione in cui potevo facilmente ritrovarmi:
«Quando le afte vengono, personalmente non esiste rimedio. E voglio morire».
Anche io, Orion_551, in quei momenti voglio morire. Resident719, forse a volte l’unica soluzione contro le afte è davvero anestetizzarsi la bocca fino a non sentire più niente. Relevant996, sappi che la penso come te: rimedi pochi, sofferenza tanta. E infine, HourFlow665, ahimè, sono giunto alla tua stessa conclusione, probabilmente le afte non mi abbandoneranno mai.
Ma sappiate, portatori di lesioni buccali, che lì fuori siamo in tanti, e che per ognuna delle cure che continuerete a tentare, e a suggerire, ci sarà almeno uno di noi disposto a infilarsi in bocca un cotton fioc imbevuto di bicarbonato di sodio e finocchietto, o a fare i gargarismi con il succo di zenzero. Nella speranza, forse chimerica, e forse pure un po’ nostalgica, che si tratti finalmente della volta buona.
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