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  • Domenica 16 marzo 2025

Coltivare, lavorare e sopravvivere in Cisgiordania

È sempre più difficile a causa non solo delle operazioni militari israeliane, ma anche per le violenze dei coloni, gli accessi ai campi negati e pozzi senza acqua

Agricoltori palestinesi attendono dietro a una sbarra dell'esercito israeliano nelle campagne vicino a Salem, a est di Nablus (AP Photo/Nasser Nasser)
Agricoltori palestinesi attendono dietro a una sbarra dell'esercito israeliano nelle campagne vicino a Salem, a est di Nablus (AP Photo/Nasser Nasser)
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Negli ultimi mesi la vita dei palestinesi della Cisgiordania è diventata sempre più difficile e complicata. È ancora in corso l’estesa operazione militare israeliana nel nord, nelle città di Jenin e Tulkarem, iniziata il 21 gennaio e che ha costretto almeno 40mila persone a lasciare le proprie case. Sono aumentate le violenze dei coloni israeliani, che sotto il governo di Benjamin Netanyahu hanno acquisito ancora più influenza. E sono aumentate le restrizioni agli spostamenti imposte dall’esercito israeliano ai civili, che hanno complicato molto le cose ai palestinesi che lavorano nel settore agricolo o nelle industrie.

L’economia della Cisgiordania – territorio che secondo la comunità internazionale appartiene ai palestinesi ma che da decenni Israele occupa illegalmentesi basa largamente sull’agricoltura: già prima dell’inizio della guerra nella Striscia di Gaza impegnava circa l’80-90 per cento dei lavoratori palestinesi (non ci sono stime sicure perché la gran parte dei lavori sono informali, cioè non registrati con un contratto).

Dopo il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas contro Israele, il permesso di lavoro in Israele è stato revocato per oltre 200mila palestinesi, soprattutto lavoratori nelle industrie, nei servizi o collaboratori domestici. In Cisgiordania oltre il 40 per cento delle piccole imprese commerciali ha ridotto i suoi dipendenti, con la perdita complessiva di 300mila posti di lavoro. L’agricoltura è diventata quasi l’unica attività possibile.

La coltivazione principale è quella degli ulivi: gli alberi, in alcuni casi centenari, occupano circa il 50 per cento dei terreni coltivabili e nel 2024 hanno generato ricavi per più di 180 milioni di euro. Altre coltivazioni importanti sono quelle di datteri, mele e uva.

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha registrato che tra ottobre e novembre, i mesi in cui si raccolgono le olive, ci sono state 260 aggressioni violente da parte di coloni israeliani contro 89 comunità palestinesi: 3.100 alberi sono stati tagliati, bruciati o danneggiati. Dall’ottobre 2023 gli alberi distrutti in Cisgiordania sono stati 52.300, il 4 per cento del totale.

Soldati israeliani e agricoltori palestinesi in un uliveto a Qusra (AP Photo/Nasser Nasser)

Spesso gli agricoltori palestinesi non riescono a raggiungere i loro alberi e raccogliere le olive, soprattutto quando gli uliveti sono vicini a colonie israeliane: serve un permesso di passaggio, che per la maggior parte delle volte nel 2023 e nel 2024 è stato negato. Nel 2023 sono rimasti incolti 110 chilometri quadrati di uliveti, nel 2024 35 chilometri quadrati. Blocchi e violazioni sono stati documentati e denunciati anche da B’Tselem, ong israeliana che testimonia le violazioni dei diritti umani nei territori occupati.

Wael Natheef è il segretario generale del sindacato PFTU (Federazione palestinese dei sindacati) di Gerico, città nella valle del Giordano, a 50 minuti di auto da Gerusalemme: a febbraio era a Milano, ospite di FILCA CISL, sindacato edile italiano.

Natheef dice che le limitazioni ai movimenti sono un problema per gli agricoltori anche quando riescono a fare il raccolto: «Durante le trattative e gli scambi di ostaggi e prigionieri fra Israele e Hamas, l’esercito ha più volte chiuso tutte le strade di accesso a Gerico, per motivi mai spiegati. Eravamo chiusi dentro anche per quattro-cinque giorni di fila. Chi doveva vendere altrove prodotti come i pomodori, che vanno a male, semplicemente non poteva farlo. Doveva farli marcire e buttarli, o svenderli».

Wael Natheef, segretario del sindacato palestinese PFTU di Gerico (Marta Valota)

Dice che è solo un esempio dei problemi peculiari della zona, che invece ne ha anche altri comuni ad altri paesi (Italia compresa), come lo sfruttamento dei lavoratori nei campi senza contratto né tutele: «I palestinesi che lavorano per i raccolti nei terreni delle colonie vengono pagati 25-30 euro al giorno, per turni di 8-9 ore. Ci sono 40 colonie nella zona e i coloni preferiscono far lavorare donne e minori, perché ritengono che diano meno problemi».

Le questioni agricole si intrecciano con quelle dell’accesso all’acqua. Già nel novembre 1967, dopo la guerra dei Sei giorni, Israele stabilì che ogni costruzione o modifica di pozzi e strutture idrauliche, anche in territorio palestinese, fosse soggetta a un’autorizzazione da richiedere all’esercito israeliano. Ancora oggi la situazione rimane complicata. Ali Sntrisi, un altro sindacalista PFTU, racconta: «Quei permessi non arrivano mai. Dai pozzi che avrebbero bisogno di manutenzione, o di uno scavo in maggiore profondità, non arriva più acqua. E senza acqua non c’è vita».

Un pozzo a Susiya nel 2012 (AP Photo/Bernat Armangue)

Gerico è vicina alle rive del mar Morto ed è un’importante meta turistica (il turismo dà lavoro a una parte della popolazione locale). Circa un migliaio di palestinesi lavora nel polo industriale di Mishor Adumim, un insediamento israeliano in Cisgiordania dove hanno sede 160 aziende di vario genere, da produttori di dolci fino a imprese tecnologiche. Per lavorare all’interno delle colonie (e quindi anche a Mishor Adumim) i palestinesi devono possedere una tessera magnetica con i dati biometrici, in vigore dal 2005, e un permesso di lavoro richiesto dall’azienda che li assume.

Anche quando hanno entrambi i documenti devono presentarsi ai checkpoint controllati dai militari israeliani, dove è impossibile prevedere i tempi di attesa, che possono andare da mezz’ora a alcune ore. Chi quotidianamente deve rispettare gli orari di una fabbrica si presenta ai checkpoint ore prima, spesso in piena notte per iniziare a lavorare la mattina.

Un checkpoint vicino alla città di Ramallah a marzo 2024 (AP Photo/Nasser Nasser)

A volte poi i checkpoint vengono chiusi, anche per periodi prolungati, costringendo a viaggi e percorsi molto più lunghi. Dal 4 febbraio, dopo un attentato, è stato chiuso il checkpoint Tayasir, che collega il nord della valle del Giordano con la provincia di Tubas: le vie alternative aggiungono almeno 90 minuti di viaggio.

A queste difficoltà si sommano i sempre più frequenti episodi di violenza compiuti dai coloni israeliani: l’OCHA ne ha contati almeno 1.860 in Cisgiordania fra il 7 ottobre 2023 e il 31 dicembre 2024. Fra il 25 febbraio e il 3 marzo sono stati 24, con 11 feriti palestinesi: molti attacchi sono risse, provocazioni o piccoli scontri, altri sono più violenti, con auto o case incendiate, bombe e sparatorie. Nella zona di Masafer Yatta, a sud di Hebron, raccontata dal documentario vincitore dell’Oscar No Other Land, ne sono avvenuti 12 fra gennaio e febbraio 2025.

– Leggi anche: La Cisgiordania è sempre più dei coloni israeliani