Che cinema, Napoli
Nel 2024 sono stati realizzati qui 200 film e serie tv: è uno dei posti migliori per girare, per ragioni che non hanno a che fare solo con l'immaginario legato alla città
di Francesco Gaeta

A Napoli è tornata Gomorra. Nelle strade intorno a porta Capuana, nei pressi della stazione centrale, si gira il prequel della serie tv, che su Sky ha avuto cinque stagioni e un successo mondiale. In realtà questo set è un pezzo di una storia più ampia che non riguarda solo la produzione in sé, ma il rapporto tra la città e lo schermo. In questi giorni sono sette le serie tv che hanno Napoli come set, molte delle quali ispirate alla cronaca.
Noi del Rione Sanità racconta l’azione di un sacerdote, don Antonio Loffredo, e dei ragazzi che stanno cambiando uno dei quartieri più difficili di Napoli. La preside si ispira dalla storia di Eugenia Carfora, che dirige l’Istituto superiore Morano di Caivano. Portobello, con la regia di Marco Bellocchio, ha al centro la vicenda di Enzo Tortora e di chi nel 1983 lo accusò ingiustamente di essere colluso con la camorra. Per Mare fuori, la serie sugli adolescenti che vivono nell’Istituto minorile di Nisida, sono iniziate le riprese della sesta stagione.
Napoli insomma è sempre più un soggetto di sceneggiatura e un fondale di scena. Basta passeggiare un pomeriggio tra via Toledo e via San Biagio dei Librai, in centro storico, per imbattersi in due troupe che lavorano in strada, attirando la curiosità di passanti e turisti. I dati dicono che se si sommano film, serie tv e spot pubblicitari del 2024, le produzioni in città sono state 200, molto più numerose rispetto al 2023. È un catalogo che comprende drammi sociali e commedie, classici del teatro riadattati e film d’autore, nuove stagioni di vecchie serie e serie nuove del tutto. Lo stesso per le pubblicità, dal basso all’alto di gamma: auto, alta moda, pasta, caffè. Per ognuna Napoli offre il set giusto e ne raccoglie i risultati. La Film Commission campana, l’ente della Regione che affianca e sostiene le produzioni cinematografiche e televisive, stima per il 2024 un impatto economico di 60 milioni. Dieci anni fa la cifra era un quarto. Sono soldi spesi sul territorio in attrezzature da noleggiare, personale tecnico locale, ristorazione, imposte per l’occupazione di suolo pubblico, affitto di locali.
Il primo motivo per cui tutto questo sta avvenendo ha a che fare con la complessità estetica e simbolica della città. «Pasolini definiva Napoli una “Pompei che non è stata sepolta”», spiega la scrittrice Viola Ardone, autrice del libro Il treno dei bambini che poi è diventato un film girato anche tra le vie del centro storico. «Ha una bellezza fatta di sovrapposizioni, è piena di contrasti, è una storia di storie. Si presta allo stereotipo, ma è anche sfuggente e misteriosa. È come l’Olandese Volante: quando pensi di averla inquadrata si è già spostata e ti offre un lato diverso».

Una scena di Il treno dei bambini (© Netflix/Entertainment Pictures/Zuma/ansa)
Ma ci sono altre ragioni più concrete. «Quando siamo arrivati nel 2013 era una città impraticabile per noi addetti ai lavori, ci restavamo il necessario per qualche ripresa in esterno e andare via», racconta Riccardo Tozzi, fondatore e amministratore delegato di Cattleya, la casa di produzione di Gomorra. «C’erano troppe difficoltà burocratiche e mancava un tessuto di aziende del settore che alleggerisse i costi delle forniture essenziali a girare».
Cattleya scelse comunque di starci mesi, ambientò le sue scene a Scampia e in altri quartieri difficili. Investì anche molto denaro, spendendo negli anni circa 120 milioni. La serie ebbe un successo internazionale e creò un effetto domino per altre produzioni. Arrivarono in pochi anni L’amica geniale, La vita bugiarda degli adulti, Mina Settembre, I bastardi di Pizzofalcone. Per il mercato locale le cose cambiarono in meglio. Secondo Tozzi oggi Napoli è il centro di produzione cinematografico e televisivo più importante d’Italia dopo Roma, «e non a molta distanza per volumi e qualità». Da sempre esiste qui un circuito di teatri unico in Italia che forma artisti di alta qualità, e «fare un casting è un problema per l’imbarazzo della scelta». A questo si aggiunge adesso una filiera di costumisti, scenografi, tecnici delle luci, assistenti di produzione. «Oggi lavorare qui è facile e stimolante».

Il set della serie tv L’Amica geniale in piazza del Plebiscito, Napoli, 14 marzo 2018 (ANSA/ CESARE ABBATE)
Se Gomorra è stato un fattore, è anche vero che le serie tv a Napoli c’erano già. Nel centro di produzione Rai che ha sede a Fuorigrotta, nella periferia occidentale della città, si produce il programma di fiction più longevo della televisione italiana. Un posto al sole va avanti con 250 puntate all’anno dal 1996. Dalla prima puntata a oggi si sono avvicendati 17 governi. Ogni sera ha circa 2 milioni di spettatori. Alle pareti degli studi di produzione, che occupano due piani del centro e comprendono magazzini, sale di ripresa e gli uffici della casa di produzione Fremantle che è partner della Rai, si vedono le foto di alcuni attori arrivati sul set adolescenti e diventati adulti stando quotidianamente in scena.
La produzione di Un posto al sole è una macchina molto complessa, coinvolge ruoli tecnici e d’autore e ha ritmi da catena di montaggio. Utilizza oltre 20 attori a puntata e un gruppo di lavoro stabile di 200 persone, di cui otto registi. Ogni puntata ha due linee di produzione, che girano in contemporanea in interno ed esterno. Negli anni il casting ha fatto provini a oltre 20.600 attori, in gran parte napoletani, e ha scritturato oltre 120mila comparse.
Un posto al sole è stato soprattutto la fabbrica di un immaginario stabile e rassicurante sulla città. Se Gomorra ha rappresentato la parte più oscura, Un posto al sole offre quotidianamente una napoletanità addolcita dai suoi aspetti più spigolosi. Intorno alla villa Volpicelli sul litorale di Posillipo (che nella serie è “palazzo Palladini”), si sviluppa una narrazione di Napoli in cui la cronaca quotidiana si mescola a messaggi a sfondo sociale, in una commedia dei buoni sentimenti da cui è esclusa ogni forma di violenza. «È una specie di bignami di questa città», spiega Antonio Parlati, direttore del centro di produzione Rai. «Ciascuno può prendersi la fetta che vuole».

Sul set di Un posto al sole nel 2008 (Stefano Dal Pozzolo/Contrasto)
È insomma una serie ecumenica e levigata nelle trame e nei dialoghi, che piace molto al Nord (Milano è la seconda città dopo Napoli per numero di spettatori) e che ha avviato anni fa il fenomeno del turismo cinetelevisivo, un effetto secondario ed economicamente molto concreto della produzione di film e serie. «Accogliamo comitive di spettatori da tutta Italia. La cosa ha a volte effetti comici: il vero bar Vulcano di Posillipo ha interni diversi da quelli che si vedono qui in studio. La gente va sul posto per un caffè e non si raccapezza».
Un’altra cosa che aiuta a spiegare l’alto numero di produzioni a Napoli è una novità degli ultimi anni: la burocrazia più snella.
Se vuole ridurre i costi, chi gira in esterno ha bisogno di trovare i posti giusti e possibilmente pagare meno possibile per l’occupazione di suolo pubblico e l’affitto di spazi privati. Un furgone di regia occupa 10 metri quadrati, ma ne servono almeno 40 in più per attrezzature e operatori, senza contare gli spazi delle scene. A Napoli i costi variano a seconda delle zone, e ci sono alcuni luoghi storici o panoramici – come piazza Plebiscito, piazza dei Martiri, via Partenope, il lungomare Caracciolo – in cui i prezzi sono alti ed è anche necessario l’assenso del sindaco per motivi di ordine pubblico. La scelta delle location, che di solito è affidata a società private, negli ultimi anni si è trasformata in un servizio agevolato anche economicamente dal comune e dalla Film Commission della Regione Campania.
Sempre per snellire la burocrazia, il comune ha avviato un Ufficio cinema, cioè uno sportello unico a cui fare riferimento per le molte pratiche. Ha poi scelto di rinunciare a una parte dell’imposta di occupazione di suolo pubblico. In cambio, le produzioni si impegnano a realizzare giornate di formazione ai giovani della città che vogliono lavorare nel settore. «È un modo per generare o rafforzare le professionalità sul territorio», spiega Ferdinando Tozzi, che è delegato del sindaco per l’industria musicale e l’audiovisivo. Nel 2024 si sono tenute una ventina di lezioni di registi, attori e scenografi, una quindicina di stage sui set e tre giornate dedicate a giovani autori che hanno un’idea da proporre (pitching day).

Sul set di È stata la mano di Dio, altro film di Paolo Sorrentino girato a Napoli, agosto 2020 (Salvatore Esposito/Pacific Press via ZUMA/ansa)
Per lavori di lunga durata, le produzioni hanno a volte ottenuto degli spazi pubblici per il backstage. È avvenuto per Parthenope, girato nel 2023 da Paolo Sorrentino tra Napoli e Capri: per settimane, regia e troupe sono state ospitate in alcune sale dell’Albergo dei poveri, una storica e molto vasta struttura costruita nel Settecento che il comune sta ristrutturando, e che dovrebbe diventare una specie di polo cittadino dedicato al cinema.
Non è facile dire quanto tutto questo stia effettivamente creando in città un vero indotto, e per quali professioni. Le persone intervistate dal Post hanno opinioni diverse, sebbene la parola «effervescenza» per definire questa fase sia ricorrente. Secondo qualcuno, vale per il cinema ciò che avviene per altri ambiti della cultura a Napoli. Maurizio De Giovanni, autore dei libri e delle serie tv su I bastardi di Pizzofalcone e Il commissario Ricciardi, spiega che «questa città ha il più alto numero di scrittori tradotti all’estero ma non ha una casa editrice. Ha il panorama musicale più vivace in Italia ma non ha una casa discografica. Napoli è cinematograficamente un genere, deve ancora diventare una vera officina della creatività».

Una foto di scena della serie tv I bastardi di Pizzofalcone (ANSA)
Negli anni sono nate diverse società di produzione, alcune non solo locali come Picomedia e Mad Entertainment. Ma su scale dimensionali più ridotte c’è chi in quest’ambito racconta difficoltà di vario genere. Luigi Pingitore ha fondato 11 anni fa la Tipot, una piccola società che fa tra l’altro animazione in 3D: «Si incentivano le produzioni esterne ma si fa poco per sostenere le nostre. In città ci sono energie magnifiche che non trovano casa. Manca una vera “factory” per i talenti locali». Per questo, quattro anni fa, Pingitore ha fondato Persona, una società di produzione che è anche un collettivo di artisti specializzato in documentari d’arte e filmmaking narrativo.
Una “factory” per le professioni del cinema è quello che ci vorrebbe anche secondo Antonietta De Lillo, che anni fa ha girato Il resto di niente, film dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, e poi ha fondato la Marechiaro, che definisce «una casa di produzione interamente femminile che è anche un piccolo luogo di resistenza». Secondo De Lillo, Napoli dovrebbe dotarsi di «una scuola di alta formazione dedicata agli autori, ai registi, agli sceneggiatori e non solo ai tecnici. Noi napoletani abbiamo nel DNA una capacità narrativa straordinaria. Serve qualcosa che coaguli e incanali questa risorsa».
A dire il vero in città si parla da anni di una scuola civica di cinema finanziata da fondi pubblici, come si è fatto a Milano e a Roma. E sembra si stia andando in quella direzione. «Si farà a Bagnoli, nell’ex base NATO, e dovrebbe aprire entro l’anno», racconta Titta Fiore, presidente della Film Commission regionale, ente pubblico che finanzia il settore con cinque milioni all’anno. «Sarà appunto una vera officina, con molti laboratori. Il nostro obiettivo è mettere in collegamento i professionisti che arrivano da fuori con quelli locali, e rafforzare la filiera che è stata avviata negli anni».
Che cinema e televisione stiano attraversando un buon momento lo dicono anche i dati dell’Accademia delle Belle Arti, dove esiste un corso di laurea magistrale in cinematografia. Ogni anno i posti a bando sono 90 ma le domande sono il quadruplo. Da quest’anno l’Accademia ha avviato 98 percorsi di dottorato di alta formazione artistica, e una quarantina sono finanziati da aziende campane.



