La vicenda giudiziaria di Enzo Tortora fu una cosa da non crederci

40 anni fa venne arrestato uno dei più famosi conduttori televisivi dell'epoca, sulla base di testimonianze confuse e senza nessun riscontro

di Stefano Nazzi

Enzo Tortora in manette il 17 giugno 1983 (Ansa)
Enzo Tortora in manette il 17 giugno 1983 (Ansa)
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Quarant’anni fa, alle quattro e mezzo del mattino, il giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora fu arrestato dai carabinieri nella sua stanza dell’Hotel Plaza, a Roma. L’ordinanza di custodia cautelare fu emessa dalla procura di Napoli.

Tortora venne portato nella caserma di via in Selci, sede del Comando Legione Lazio. Le accuse che gli vennero formalizzate furono di essere un trafficante di stupefacenti e di associazione di tipo mafioso. Più precisamente, secondo le accuse, Tortora sarebbe stato affiliato alla NCO, la Nuova Camorra Organizzata, cartello di clan di cui era a capo il boss Raffaele Cutolo.

Il 17 giugno del 1983 cominciò una vicenda giudiziaria all’inizio controversa e poi sempre più inverosimile e a tratti grottesca. Per molto tempo gli italiani si divisero in colpevolisti e innocentisti, fino a quando apparve chiaro che Enzo Tortora era stato accusato basandosi solo sul racconto confuso, pieno di lacune e decisamente poco credibile, di alcuni collaboratori di giustizia. Non esisteva nessun riscontro oggettivo, in realtà i riscontri non erano proprio stati cercati. I media, tranne poche eccezioni, infierirono su Tortora dando credito alle accuse che gli venivano fatte.

Enzo Tortora all’epoca era uno dei più famosi conduttori della tv insieme a Mike Bongiorno. Dopo aver lavorato a lungo alla Rai ne era stato allontanato nel 1969 per aver dato un’intervista a un settimanale in cui definiva l’azienda di Stato come «un jet colossale pilotato da un gruppo di boy scout». Rientrò in Rai otto anni dopo quando gli fu affidata la conduzione di un programma poi passato alla storia, Portobello. Era un show televisivo in cui venivano vendute le cose più strane ma che conteneva anche rubriche che anticiparono altre trasmissioni come Dove sei?, precursore di Chi l’ha visto?. La media dei telespettatori nelle sei edizioni tra il 1977 e il 1983 era di 20-21 milioni a serata. Ci furono puntate viste da 28 milioni di persone.

La notizia che Tortora sarebbe stato arrestato circolava già nelle redazioni dei giornali dal giorno prima, il 16 giugno. Quel pomeriggio, mentre era impegnato in una riunione con la sua redazione, il giornalista ricevette una telefonata da un cronista del Giorno di Milano che gli disse: «Dicono che ti hanno arrestato, ma evidentemente non è vero». Tortora rise e non prese la cosa sul serio. Probabilmente c’era stata una fuga di notizie dalla procura di Napoli.

– Ascolta: La puntata di Indagini su Enzo Tortora

Con Enzo Tortora quel giorno vennero arrestate altre 856 persone, tutte accusate di far parte della camorra. Già poche settimane dopo si iniziò a capire che l’operazione dei procuratori napoletani aveva notevoli falle: 144 persone arrestate risultarono omonimi di presunti appartenenti alla NCO, che poco tempo prima si era contesa il territorio con la Nuova Famiglia, un altro gruppo che riuniva diversi clan. La guerra di camorra tra le due organizzazioni provocò tra il 1979 e il 1983 oltre 900 morti.

Il 17 giugno del 1983 Tortora venne fatto uscire dalla caserma dei carabinieri nel momento in cui fuori si erano radunati curiosi e giornalisti. Venne fotografato e ripreso dalle telecamere in manette mentre raggiungeva l’auto che l’avrebbe portato in carcere, scortato dai carabinieri. Il giorno dopo e per molte settimane le immagini di Tortora in manette furono sulle pagine dei giornali e nei servizi televisivi. Oggi il comma 6 bis dell’articolo 114 del codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1999, dice:

È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi o ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta.

Nella retata contro la NCO Tortora ci era finito in seguito al racconto di due cosiddetti “pentiti”, Giovanni Pandico, detto ’o pazzo, e Pasquale Barra, detto ’o animale. Il primo a fare il nome di Tortora fu Pandico, che lo mise però solo al sessantesimo posto di un elenco molto lungo di presunti affiliati alla camorra. Pandico era in carcere perché aveva ucciso due persone in un ufficio del comune che secondo lui erano troppo lente nel consegnargli un certificato. Aveva condanne anche per tentato parricidio e tentato avvelenamento della madre, e perché aveva cercato di dare fuoco alla casa di famiglia. Era anche stato condannato per calunnia. Aveva trascorso diverso tempo nel manicomio giudiziario di Aversa, dove era detenuto anche Raffaele Cutolo. La sua cartella clinica diceva che era «paranoico, schizoide, dotato di personalità aggressiva, condizionata da mania di protagonismo».

Giovanni Pandico (Ansa)

Il secondo camorrista ad accusare Tortora fu Barra, disse di averlo conosciuto in alcuni night milanesi e di averlo presentato a Cutolo, che aveva offerto a Tortora 80 milioni di lire per ogni partita di droga spacciata tra i personaggi dello spettacolo. L’accordo, disse ancora Barra, era stato sancito a Ottaviano, nella casa di Cutolo in provincia di Napoli. Tortora poi aveva rubato 46 milioni all’organizzazione, però non era stato ucciso perché secondo Cutolo era troppo famoso, sarebbe stato controproducente.

Il racconto era decisamente poco credibile: nessuno aveva mai visto Tortora in giro per night e anzi aveva la fama di una persona che non frequentava per niente il jet set e la Milano notturna. Ed era assai inverosimile che fosse stato a casa di Cutolo, a Ottaviano, senza che nessuno l’avesse notato. Ma ancora di più lo era il racconto di Pandico, secondo cui Tortora era stato nominato “camorrista ad honorem” (carica mai esistita nei gruppi di criminalità organizzata) nel 1979 con una cerimonia a Milano a casa di una certa Nadia Marzano, in via Massarenti 26. In quell’occasione Tortora aveva pronunciato questa formula:

Nel Castello di Ottaviano avvenne l’abbraccio dei sette cavalieri della camorra, che raccolsero il sangue dell’Onorata Società, lo assaggiarono e lo depositarono in una palla di vetro perché fosse portato al re del crimine Raffaele Cutolo, uomo umile come la seta, forte come l’acciaio e freddo come il ghiaccio. Così saremo. Con parole d’omertà è formata la società. Buon Vespro.

L’affiliato doveva rispondere:

Giuro sul mio cuore di essere fedele alla NCO che è nata nel 1970 il 24 ottobre nel castello mediceo di Ottaviano, come la NCO è fedele a me.

Nadia Marzano scrisse ai magistrati napoletani spiegando che lei la casa in via Massarenti l’aveva comprata nel 1980, ma la sua lettera venne ignorata.

L’inchiesta contro Tortora fu coordinata dai due procuratori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. I giornali li definirono i “Maradona del diritto”, intendendo che fossero i migliori in circolazione. Tutta la stampa, tranne poche eccezioni, si dimostrò subito convinta della colpevolezza di Tortora. Il Giorno scrisse: «C’è ben più di qualche convincimento. Ci sono fatti incontrovertibili. Voi pensate che se i magistrati avessero avuto qualche dubbio su Tortora avrebbero deciso di correre il rischio di fare una brutta figura?».

Pasquale Barra (Ansa)

Il Tempo invece scrisse: «L’eroe televisivo Enzo Tortora rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto». Anche la celebre giornalista Camilla Cederna sembrò non avere dubbi: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole. Non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni». Il quotidiano La Notte descrisse così Pasquale Barra: «È un cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamento. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione date, luoghi, personaggi senza mai sbagliare».

Non era così. Barra faceva racconti confusi, al processo contro Tortora non si presentò neppure.

Solo pochi giornalisti esposero seri dubbi. Tra questi Piero Angela, molto amico di Tortora, ed Enzo Biagi, autore di un celebre articolo su Repubblica intitolato «E se Tortora fosse innocente?». Biagi si rivolse al presidente della Repubblica, Sandro Pertini, e scrisse: «Signor Presidente, non le sottopongo il caso di un mio collega ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura». Giorgio Bocca definì la vicenda Tortora «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso nel nostro paese».

Non c’erano riscontri al racconto dei due collaboratori di giustizia. I magistrati sostennero di essere in possesso di un’agenda, trovata durante una perquisizione a casa di un altro camorrista, Giuseppe Puca, detto ’o Giappone. Secondo loro alla lettera T di quell’agenda c’era il nome di Tortora. In realtà il nome era di Vincenzo, detto Enzo, Tortòna o Tòrtona, commerciante di bibite di Salerno. Nessuno però provò a chiamare quel numero telefonico per verificare.

Intanto Enzo Tortora era stato trasferito da Roma al carcere di Bergamo. Le accuse sembravano inconsistenti ma poi iniziarono a parlare altri collaboratori di giustizia, in tutto alla fine furono 19. Tra di loro c’era anche un testimone estraneo alla camorra, un pittore di nome Giuseppe Margutti, che sostenne di aver visto Tortora nel 1979 mentre scambiava una partita di droga con due persone negli studi dell’emittente milanese Antennatre. Margutti poi ritrattò, disse di essersi sbagliato.

Gianni Melluso (Ansa)

Si aggiunse anche Gianni Melluso, detto “Gianni il Bello” o “Gianni Cha Cha Cha”: non era un camorrista ma un piccolo criminale anche lui detenuto a Napoli. Sostenne di aver consegnato personalmente più volte la droga a Tortora che si presentava di notte, a Milano, con cappellino, sciarpa a coprire il volto e occhiali scuri.

Chi iniziava a collaborare lasciava il carcere e veniva trasferito in una caserma dei carabinieri dove, raccontarono poi, le condizioni di detenzione erano decisamente migliori, tanto che alcuni di loro chiamavano quella caserma «hotel».

Dal giorno dell’arresto Tortora si dichiarò sempre innocente. Alberto Dall’Ora, che con Raffaele Della Valle difendeva Tortora, dopo il secondo interrogatorio nel carcere di Bergamo disse: «Niente. Niente. Zero più zero fa zero. Hanno vuotato il sacco, e il sacco è vuoto».

Prima che Tortora venisse arrestato, Pandico gli aveva scritto numerose lettere in cui parlava di una serie di centrini, cioè centrotavola. Quando i magistrati gli chiesero una spiegazione, lui disse che in realtà “centrini” era una parola in codice che significava droga. Domenico Barbaro, ex compagno di cella di Pandico, spiegò però che quei centrini erano davvero centrini: «Li ho fatti io all’uncinetto, poi visto che io non so scrivere li aveva spediti Pandico a Portobello perché fossero mostrati in trasmissione». Siccome questo non accadde, Pandico cominciò a scrivere a Tortora lettere sempre più risentite. Disse Barbaro: «Pandico era totalmente ossessionato da Tortora, non parlava d’altro, in cella non ne potevamo più».

Insomma, secondo Barbaro, Pandico aveva fatto il nome di Tortora ai magistrati per punirlo: la sua colpa era quella di non aver mostrato i centrini durante una puntata della trasmissione.

Enzo Tortora in carcere (Ansa)

Il 17 gennaio 1984 a Enzo Tortora vennero concessi gli arresti domiciliari. Dopo sette mesi lasciò il carcere e tornò a casa sua, a Milano. Nonostante l’inconsistenza degli indizi, la mancanza di qualsiasi prova e la confusione nei racconti dei collaboratori di giustizia, l’indagine della magistratura di Napoli andò avanti.

Nella primavera del 1984 il Partito Radicale di Marco Pannella propose a Tortora di candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo. Lui accettò. I radicali dissero che Tortora era il simbolo di una battaglia per una «giustizia giusta», mentre alcuni giornali scrissero che cercava solo un modo per sottrarsi alla giustizia. Il 17 giugno del 1984 (il giorno 17 è ricorrente in questa vicenda) Tortora venne eletto al Parlamento europeo con 485mila voti.

Il processo alle persone accusate di fare parte della NCO iniziò nel gennaio del 1985. Avvenne un confronto tra Tortora e Melluso in cui quest’ultimo non riuscì a circostanziare nessuno dei presunti incontri con il giornalista. Il 4 marzo Tortora si rivolse così ai giudici:

Non sono mai stato un uomo di mondo né so cosa voglia dire. Non so giocare a carte per quanto bizzarro le possa apparire. Non ho mai frequentato una casa da gioco o un casinò. C’è una così siderale distanza tra l’uomo reale e il verme che qui viene dipinto, da darmi brividi e disgusto ininterrotto. E da quasi due anni, signor presidente, io vivo con il brivido e il disgusto.

Diego Marmo, il pubblico ministero che sostenne l’accusa, disse, rivolgendosi all’avvocato Dall’Ora:

Avvocato, il suo cliente è stato eletto con i voti della camorra. I pentiti con i colpi della camorra rischiano di essere uccisi. Voi non avete alcun rispetto della vita umana.

Il 17 settembre (di nuovo il 17) la giuria lesse il verdetto: Tortora venne condannato a dieci anni di carcere e al pagamento di una multa di 50 milioni di lire. Dopo la condanna si dimise da parlamentare europeo rinunciando così all’immunità, e tornò agli arresti domiciliari.

Raffaele Cutolo (Ansa)

Uno a uno molti dei collaboratori di giustizia che lo avevano accusato scrissero lettere dicendo di essersi inventati tutto e chiedendo perdono. Roberto Sganzerla scrisse: «Io e Melluso ci siamo messi d’accordo per fare questa versione Tortora, ma non è vero niente». Un altro, Mauro Marra, scrisse: «Dichiaro che nel carcere di Campobasso nel 1984, a istruttoria ancora aperta, i pentiti Catapano, D’Amico, Melluso, Auriemma, Dignitoso e Barra, avevano la possibilità di consultarsi tra loro e mettersi d’accordo per coinvolgere innocenti». Anche Giuseppe Puca, o’ Giappone, disse ai giudici: «Enzo Tortora non è mai stato camorrista». E poi: «Ma voi avete mai fatto il numero di telefono che compare su quell’agenda? Non è Tortora, è Tortòna. Un imprenditore». D’altronde lo stesso Raffaele Cutolo aveva detto più volte: «Se Tortora fosse stato un camorrista, forse io che sono descritto come il capo di quella organizzazione avrei dovuto saperlo».

Il processo d’appello iniziò il 20 maggio 1986. Delle accuse contro Enzo Tortora non rimaneva quasi più nulla. Pandico venne messo a confronto con Domenico Barbaro, l’uomo dei centrini, che ribadì la sua versione. Pasquale Barra non si presentò in aula. Melluso continuò ad accusare Tortora. Prima che la giuria si ritirasse per emettere la sentenza, Tortora si rivolse ai giudici: «Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi».

Il 15 settembre del 1986 Enzo Tortora venne assolto dall’accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso per non aver commesso il fatto e da quella di spaccio di droga perché il fatto non sussiste. Il giudice Michele Morello, che aveva partecipato alla decisione, dopo il processo disse: «Abbiamo assolto chi dovevamo assolvere e condannato chi dovevamo condannare». Per questa frase venne messo sotto procedimento disciplinare dal Consiglio superiore della magistratura. Ricordò Tullio Morello, figlio del giudice: «Abbiamo vissuto mesi dolorosi, forse anni, vedendo colleghi che prima ci salutavano per strada e poi che non ci salutavano più e addirittura cambiavano marciapiede».

Il 20 febbraio del 1987 Enzo Tortora tornò a condurre la sua trasmissione, Portobello. Iniziò con una frase rimasta poi nella memoria di molti: «Dunque, dove eravamo rimasti?».

Il 13 giugno del 1987 la Corte di Cassazione confermò la sentenza di secondo grado. Dopo 1.185 giorni la storia dell’arresto, dell’incriminazione e delle accuse a Tortora finì.

Il giudice Diego Marmo, in un’intervista rilasciata 30 anni dopo quei fatti, disse:

Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.

I pubblici ministeri Di Persia e Di Pietro non fecero mai autocritica né il CSM aprì mai un procedimento nei loro confronti. Uscito dal carcere nel 2019, Gianni Melluso chiese perdono. Disse: «Mi inginocchio e chiedo scusa». Gaia Tortora, la figlia del giornalista, gli rispose: «Resti pure in piedi». Pasquale Barra è morto il 27 febbraio del 2015 nel carcere di Ferrara. Di Giovanni Pandico non si è più saputo nulla.

Durante una visita da presidente del Partito Radicale, Enzo Tortora incontrò Raffaele Cutolo nel carcere dell’Asinara, in Sardegna. Cutolo gli disse: «Molto lieto. Come si ricorderà io sono un suo luogotenente». E poi: «Sono onorato di stringere la mano a un innocente».

Enzo Tortora (LaPresse)

Si è molto dibattuto in questi 40 anni sul reale motivo per cui Tortora venne coinvolto in questa storia. La teoria più accreditata è che, partendo dal risentimento di Pandico verso di lui, i vari collaboratori di giustizia abbiano approfittato della situazione per aggiungersi alle accuse e trarre così qualche beneficio. A questo si sarebbe sommata la vanità dei pubblici ministeri, forse desiderosi di occupare la scena con un caso così clamoroso. Altri sostengono che inserire il nome di Tortora tra gli accusati servì per cercare risalto e sostegno all’inchiesta. Altri ancora dicono che in realtà il caso Tortora servì a deviare l’attenzione da scandali che altrimenti avrebbero investito la politica e la magistratura napoletana, come quello dei soldi per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980, finiti alla camorra, e il conseguente rapimento del politico democristiano Ciro Cirillo. Nella trattativa per il rilascio di Cirillo avrebbe avuto una parte lo stesso Raffaele Cutolo.

Enzo Tortora morì a Milano il 18 maggio del 1988, nemmeno un anno dopo la sentenza definitiva della Corte di Cassazione. Poco tempo prima gli era stato diagnosticato un tumore. Non esiste prova scientifica che possa affermare una relazione di causa tra l’enorme stress dei mesi vissuti da carcerato e imputato e la malattia, ma è certo che quei mesi lo colpirono duramente, sia a livello psicologico che fisico.