La storia di Marian Turski, che tenne viva la memoria di Auschwitz
Il giornalista e storico polacco era uno degli ultimi sopravvissuti del campo di sterminio nazista: è morto a 98 anni

Martedì è morto a 98 anni Marian Turski, storico e giornalista polacco, presidente del Comitato internazionale di Auschwitz, che negli ultimi decenni si è molto impegnato per mantenere e diffondere la memoria della Shoah e delle atrocità dei campi di concentramento e sterminio nazisti, dove durante la Seconda guerra mondiale furono uccisi milioni di persone ebree, rom, sinti, con disabilità, appartenenti a minoranze sessuali e oppositori politici.
Nato nel 1926 a Druskieniki (al tempo in Polonia ma oggi in Lituania) con il nome di Moshe Turbowicz, crebbe a Łódź, nella Polonia centrale. Era un ragazzo quando la Germania nazista invase e occupò il paese: a 14 anni fu portato nel ghetto realizzato dai nazisti nella sua città, in un ambiente segnato dalle malattie, dalle privazioni e dai lavori forzati. Nel 1944 fu deportato nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, sempre in Polonia, dove suo padre e suo fratello furono uccisi nelle camere a gas. Dopo pochi mesi fu trasferito con quelle che vengono chiamate “marce della morte”, le evacuazioni forzate dei campi nazisti verso la fine della Seconda guerra mondiale. Fu prima portato verso il campo di Buchenwald, poi in quello di Terezín, da cui venne infine liberato dalle armate sovietiche, non ancora diciannovenne.
Turski disse che per molti anni faticò a ricordare bene il suo periodo passato nel campo di concentramento. Disse di non poter dimenticare di essere stato deportato, a causa del numero identificativo rimasto tatuato sulla sua pelle, e di ricordarsi chiaramente alcuni episodi specifici, come il suo arrivo ad Auschwitz. Tutto il resto però era «sfocato». Dopo la liberazione non tornò ad Auschwitz per 20 anni.
Dopo la guerra rifiutò un’offerta per emigrare negli Stati Uniti, e scelse di rimanere in Polonia per contribuire alla creazione di uno stato socialista. Si trasferì a Varsavia e affiancò all’impegno politico il lavoro da storico e giornalista, fra cui alla direzione della sezione di storia del settimanale Polityka. Nel 1965, mentre si trovava negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio, partecipò alla celebre marcia contro il razzismo da Selma a Montgomery, in Alabama, organizzata da Martin Luther King.
Fu un promotore della riconciliazione fra ebrei e polacchi e fra polacchi e tedeschi. Nel tempo però iniziò a dedicarsi in particolare alla diffusione della memoria della Shoah, ed entrò a far parte di diverse associazioni storiche ebraiche in Polonia e all’estero, fra cui il Comitato internazionale di Auschwitz, che ha sede a Berlino e di cui divenne poi presidente. Fu tra i fondatori del museo POLIN di storia ebraica a Varsavia, inaugurato nel 2014: disse che con il progetto del museo voleva far capire ai visitatori che gli ebrei hanno vissuto in Polonia per mille anni, e che hanno contribuito alla sua storia e alla sua società non sempre come vittime ma anche e soprattutto come protagonisti.
Dopo la morte di Turski molti hanno ricordato il discorso che tenne nel 2020 ad Auschwitz, in occasione del 75esimo anniversario della liberazione del campo. Propose un undicesimo comandamento, oltre ai soliti dieci: «non essere indifferente», esortando ad agire di fronte alle prevaricazioni e alle ingiustizie. «Perché se sarai indifferente, prima che tu te ne accorga ci sarà all’improvviso un’altra Auschwitz per te o per i tuoi discendenti», disse. Ricordò che «Auschwitz non cadde dal cielo», ma che la Shoah fu resa possibile da una serie di eventi negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale: Turski diceva insomma che senza contrastare l’indifferenza quelle atrocità si sarebbero potute ripetere.
Il 27 gennaio è ritornato ad Auschwitz per l’80esimo anniversario della sua liberazione. Il suo impegno pubblico derivava anche dalla consapevolezza di far parte della minoranza dei sopravvissuti della Shoah ancora in vita, a loro volta una minoranza rispetto a tutte le persone deportate e morte nei campi di concentramento e sterminio nazisti, come ha recentemente ricordato lui stesso nel suo ultimo discorso.



