Cosa sappiamo del perché gli uccelli cantano
Lo fanno per richiamare l’attenzione, per addestrare la prole e per molti altri scopi, secondo schemi che solo in parte riusciamo a comprendere

La berta maggiore è una delle specie di uccelli nidificanti più diffusa nel Mediterraneo. Lo è da tempi antichi, come si intuisce dalle leggende che la riguardano e dal suo nome scientifico: Calonectris diomedea, dal nome del valoroso eroe acheo Diomede, che secondo una versione riportata dallo storico greco Strabone morì nelle isole Tremiti. I suoi compagni di battaglia, affranti, furono trasformati dalla dea Afrodite in uccelli marini rimasti a guardia della tomba del loro condottiero, di cui piangono ancora la morte.
Aveva senso, come leggenda: il canto delle berte maggiori, emesso di notte dalle intere colonie che nidificano sulle isole, somiglia a un pianto lamentoso. Quello dei maschi ha una frequenza più acuta, quello delle femmine è più profondo e meno squillante. Nei luoghi in cui le berte si riproducono capita di sentire i loro canti molto spesso, anche da lunghe distanze, com’è noto ai pescatori che nelle notti senza luna lo intendono come un segno che la costa è vicina.
Da queste abitudini della berta e dal suo canto tipico, simile a una vocalizzazione umana, deriva probabilmente anche il mito delle sirene. Secondo una diffusa spiegazione della leggenda, in antichità marinai intrepidi e incauti potrebbero aver fatto schiantare le loro imbarcazioni contro gli scogli dopo essersi spinti troppo vicino alla riva, nel tentativo di capire l’origine di quei lamenti notturni.
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Sappiamo molte cose delle vocalizzazioni degli uccelli, a parte le leggende. In ornitologia si dividono in richiami, di solito brevi e monosillabici, e canti, più prolungati e spesso tonali e melodici. Ma è una distinzione dai confini incerti: un suono che in una specie è considerato un canto può anche durare meno di quello che in un’altra specie è considerato un richiamo. Non esiste nemmeno una valida trascrizione onomatopeica internazionale per i vari suoni prodotti dalle diverse specie. Gli uccelli e gli esseri umani hanno infatti apparati fonatori molto diversi, il che rende le vocalizzazioni degli uni e quelle degli altri sostanzialmente incommensurabili.
Delle quasi 11mila specie conosciute di uccelli, circa la metà sono canori, anche detti òscini (dal latino oscĕn, il nome degli uccelli il cui canto era interpretato dagli àuguri). Gli uccelli che cantano lo fanno attingendo da un repertorio di vocalizzazioni che cambiano a seconda della situazione e dello scopo: segnalare la propria presenza o un pericolo, attirare i partner, marcare il territorio, rafforzare i legami di gruppo, o altro.
Ci sono diversi aspetti in comune tra il modo di comunicare degli esseri umani e quello degli uccelli. Uno di questi è che ogni specie ha un repertorio vocale distintivo, ma ci sono anche “dialetti” non condivisi tra popolazioni di una stessa specie che vivono in regioni diverse, o anche in uno stesso territorio.
Un progetto dell’associazione italiana Ardea, presentato nel 2024 al convegno europeo di ornitologia a Praga, ha mostrato che il repertorio di una popolazione di gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax) registrata sul monte Cervati, nel Cilento, contiene alcuni richiami non riscontrati nel repertorio di altre popolazioni. L’ipotesi del gruppo di ricerca è che in quella popolazione di gracchi dell’Appennino meridionale le vocalizzazioni si siano evolute in un dialetto specifico. In altre specie riconoscere o no una vocalizzazione è utile, tra le altre cose, anche a distinguere individui del gruppo da altri migratori.
Come gli uccelli imparino a cantare, quanto del loro canto sia appreso e quanto sia innato, sono domande alla base di diversi studi di ornitologia, molti dei quali condotti sui diamanti mandarini, o diamantini (Taeniopygia guttata). Alcuni dimostrano come i pulli imparino a cantare in un modo simile a come i bambini imparano a parlare, cioè ripetendo semplici sillabe pronunciate dagli individui adulti (un processo definito lallazione).
La prima fase dell’apprendimento, fatta di tentativi di imitazione delle vocalizzazioni degli adulti, comincia nel nido: è detta canto plastico, perché porta alla produzione di suoni molto vari, inventati e improvvisati, molti dei quali vengono poi dimenticati. Solo quando gli uccelli sono in grado di replicare perfettamente le vocalizzazioni degli adulti, dopo un certo periodo, il canto è detto cristallizzato.
Anche per gli uccelli, come per gli esseri umani, è fondamentale per tutta la fase dell’apprendimento l’esperienza sociale, che secondo un filone di studi relativamente recenti comincia già in fase embrionale: alcune specie cantano ai propri piccoli fin dalla cova.
Una delle più citate e conosciute autrici di questi studi è l’ornitologa Sonia Kleindorfer, direttrice del Konrad Lorenz Institute for Evolution and Cognition Research in Austria, un importante centro internazionale per la ricerca comportamentale comparata. Dopo un dottorato di ricerca in zoologia all’università di Vienna Kleindorfer studiò gli uccelli canori alla Flinders University ad Adelaide, in Australia, dedicandosi in particolare al loro sviluppo precoce.
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Scoprì che quando i forapaglie castagnoli (Acrocephalus melanopogon) avvistavano un predatore, emettevano un richiamo di allarme diverso a seconda del predatore, e i loro pulli nel nido reagivano in modo appropriato a seconda del richiamo. Se il predatore avvistato era un serpente, cominciavano a saltare fuori dal nido; se era un falco di palude, si accovacciavano, ha raccontato Kleindorfer al New Yorker. Questo risultato mise in discussione l’ipotesi, prevalente all’epoca, che i richiami fossero diretti ad altri adulti o forse ai predatori.
Studiando le vocalizzazioni nei nidi di scricciolo azzurro australiano (Malurus cyaneus), una specie endemica in Australia, Kleindorfer e altre ricercatrici e ricercatori scoprirono che le femmine producevano un richiamo distintivo durante la cova, una specie di ninna nanna, correndo peraltro il rischio di attirare predatori. Nei giorni dopo la schiusa delle uova i pigolii dei pulli, emessi per richiamare l’attenzione dei genitori e richiedere l’imboccata, corrispondevano nel tono al richiamo utilizzato dalla madre durante la cova.
Nonostante gli embrioni degli uccelli canori non abbiano orecchie ben sviluppate, era come se i pulli avessero imparato nell’uovo le vocalizzazioni della madre, e questo aiutava gli adulti a riconoscere i propri piccoli. Il gruppo di Kleindorfer scoprì anche che, quando le uova venivano spostate da un nido a un altro, i pulli utilizzavano i pigolii appresi durante la covata nel nido “adottivo”, diversi da quelli associati ai richiami delle loro madri genetiche.
Una caratteristica che gli uccelli canori condividono con gli umani e con alcuni altri animali, tra cui gli elefanti e le balene, è la capacità di imparare vocalizzazioni nuove per tutta la vita, per scopi diversi a seconda del contesto e degli stimoli ambientali. È una capacità diversa dalla semplice imitazione dei suoni, che invece non è considerata una forma di comunicazione complessa da chi studia quella degli animali non umani.
Anche se alcune specie di uccelli sono note proprio per questo, l’imitazione dei suoni in natura è in generale piuttosto rara (tendenzialmente gli uccelli imparano il canto dai conspecifici). Uno straordinario imitatore è l’uccello lira australiano (Menura novaehollandiae), capace di riprodurre praticamente qualsiasi suono che ascolta, naturale o artificiale: voci umane, versi di altri animali, allarmi antifurto, fotocamere, motoseghe. I maschi utilizzano poi parti di questi suoni in composizioni che producono durante i rituali di corteggiamento.
Ci sono uccelli abili a imitare versi di altri animali anche per altri scopi, come per esempio ingannare altre specie. Il drongo codaforcuta (Dicrurus adsimilis), un piccolo uccello dell’Africa subsahariana simile alla taccola eurasiatica, riproduce a volte i richiami di allarme degli storni o dei suricati, per indurre gli uni o gli altri alla fuga e poter banchettare con il pasto che stavano mangiando.
Negli ultimi decenni diversi studiosi di ornitologia e di comunicazione animale hanno cercato di riconoscere e catalogare i canti degli uccelli utilizzando gli spettrogrammi, cioè i grafici dell’intensità di un suono in funzione del tempo e della frequenza (molto comuni nei software di editing audio). Questo approccio ha permesso di distinguere con un certo livello di dettaglio suoni diversi che possono apparire simili, associati a usi e stimoli ambientali differenti.
Alcuni studi sulla ghiandaia siberiana (Perisoreus infaustus), una specie di corvidi diffusa in un’estesa parte della regione paleartica (non solo la Siberia), hanno mostrato quanto sia ampio e variegato il suo repertorio di richiami associati alla presenza di un predatore. C’è un richiamo per indicare un falco appollaiato da qualche parte, uno per indicare un falco che sta volando in perlustrazione e un altro per indicare un falco che sta attaccando. E ciascun richiamo induce nel gruppo un comportamento diverso: riunirsi in gruppo, nascondersi o scappare.
La ghiandaia siberiana è soltanto un esempio tra migliaia di uccelli dal comportamento sociale complesso, a cui corrisponde un’altrettanto complessa capacità di articolare suoni differenti. La Macaulay Library, il più grande archivio mondiale di foto, video e audio di animali, comprende oltre un milione di registrazioni di uccelli, molte delle quali inviate da appassionati. Il direttore della biblioteca, Mike Webster, è uno studioso di comportamento e comunicazione animale della Cornell University a Ithaca, nello stato di New York.
Nel 2021 il laboratorio in cui lavora Webster ha pubblicato un’app, Merlin Bird ID, che permette di identificare con precisione le vocalizzazioni di circa 1.400 specie di uccelli. Il laboratorio conta di poter aumentare in futuro il numero di specie identificabili e di migliorare la comprensione delle loro vocalizzazioni, grazie anche all’utilizzo di nuovi strumenti di intelligenza artificiale.
Un limite attuale degli strumenti di apprendimento automatico è che funzionano bene nel rilevare le correlazioni, ma possono anche farne emergere alcune irrilevanti o fuorvianti. Molto dipende dalle registrazioni disponibili nel database, e alcuni tipi sono più presenti di altri. La maggior parte è composta da canti e richiami di allarme, cioè le vocalizzazioni più facili da registrare, ha detto Webster al New Yorker.
Tra gli uccelli sociali c’è però tutto un vastissimo tipo di comunicazione a bassa intensità nel nido, più silenziosa e sfuggente, e molto meno prevedibile, la cui comprensione umana è ancora in una fase iniziale. Arrivare a traduzione dirette delle loro vocalizzazioni in linguaggio umano sarebbe comunque un obiettivo irrealistico e improprio, ha detto Webster, semplicemente perché gli animali abitano in mondi percettivi troppo diversi da quello degli umani.
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