“The Brutalist” piace molto, ma non agli architetti

Secondo chi lo fa di mestiere il film candidato a dieci premi Oscar non mostra in maniera accurata cosa sia l'architettura, né il contesto storico

Una foto tratta dalla pagina IMDb del film The Brutalist
Una foto tratta dalla pagina IMDb del film The Brutalist
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The Brutalist di Brady Corbet, uscito in Italia questa settimana, è considerato uno dei film favoriti in vista degli Oscar. Ha ricevuto 10 nomination, è stato premiato con tre Golden Globe e continua a essere ampiamente apprezzato dalla critica anche per l’interpretazione di Adrien Brody, che ha il ruolo di un architetto ebreo ungherese emigrato negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Eppure agli architetti il film non è piaciuto: in parte perché perpetua lo stereotipo del genio solitario, e in parte perché non descrive in maniera accurata il contesto, il mestiere e tutto ciò che ci sta dietro.

Il termine brutalismo fa riferimento a uno stile architettonico in voga soprattutto tra gli anni Cinquanta e Ottanta e trae il proprio nome dal francese béton brut, cioè “cemento grezzo”. La sua caratteristica principale infatti è l’ampio uso del cemento a vista, con un certo rigore geometrico e volumi spesso massicci: gli stessi elementi per cui alcune persone lo apprezzano, mentre altre lo associano al degrado urbano o ai totalitarismi. Emerse dapprima nel Regno Unito e poi si diffuse nel resto d’Europa, Italia compresa, così come negli Stati Uniti e in Giappone.

L’architetto fittizio interpretato da Brody si chiama László Tóth, come l’uomo che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo in Vaticano. È sopravvissuto all’Olocausto e nel 1947 si stabilisce assieme alla moglie (Felicity Jones) in Pennsylvania, dove un ricco imprenditore gli commissiona un imponente edificio per la comunità, con al suo interno una chiesa cristiana. Dopo la distruzione della Seconda guerra mondiale sia negli Stati Uniti che in Europa c’era un gran bisogno di nuove case e strutture pubbliche: Tóth si trova a gestire non solo un progetto ambizioso, che per lui ha una funzione altamente simbolica, ma anche l’arroganza e la testardaggine di chi glielo ha commissionato.

Nelle note di regia Corbet spiega che per lui The Brutalist è «un modo di parlare degli aspetti più burocratici del processo artistico», ed è anche per questo che molti hanno trovato nella figura dell’architetto una chiara metafora di quella del regista. Per come viene rappresentato, tuttavia, «perpetua un colossale cliché», scrive il Financial Times, in una «semplificazione quasi malata dell’architettura»: ovvero l’idea dell’architetto come figura geniale e tormentata che lavora da sola, quando in realtà l’architettura è uno sforzo collettivo che comprende decine di persone, dai costruttori ai designer a una squadra di altri architetti.

Tóth deve progettare un centro per la comunità, ma questa comunità non viene mai coinvolta. È talmente devoto al progetto che trascura chiunque e quando qualcuno lo mette in discussione si lascia andare a scatti d’ira, faticando a scendere a compromessi. «Ne abbiamo piene le palle del genio solitario!», dicono gli architetti e autori Mark Lamster, Alexandra Lange e Carolina A. Miranda in un podcast registrato appositamente intitolato “Why ‘The Brutalist’ is a Terrible Movie”, “perché The Brutalist è un film tremendo”: in passato poteva accadere, ma il fatto che venga raccontato come un esempio positivo ancora oggi «è incredibilmente frustrante».

Le mancanze del personaggio «si allineano perfettamente a quelle della nota caricatura degli architetti come megalomani, fanatici nella loro devozione a visioni utopiche, e brutali nella loro indifferenza per l’umanità di tutti i giorni», scrive il Washington Post. Il film insomma sembra funzionare nell’intento di raccontare le grandi opere creative che sanno ispirare, ma la rappresentazione del mestiere rimane «dolorosamente retrograda».

Lamster, Lange e Miranda notano inoltre che i riferimenti all’architettura sono molto vaghi, che non c’è alcuna discussione sui progetti e che per tutto il film – che dura circa tre ore e mezza – non si sa esattamente cosa Tóth stia realizzando. L’uso del cemento e l’estetica brutalista richiamati nel titolo, peraltro, offrirebbero molte possibilità di ottenere effetti drammatici efficaci e molto adatti al cinema, ma tutto ciò non viene sfruttato, dicono. Il motivo è anche che The Brutalist è un film girato con pochi soldi: il budget è stato di 10 milioni di dollari, piuttosto basso, sebbene dia in parte l’impressione di essere un colossal.

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C’è poi la questione del contesto in cui si inserisce la storia. Tóth viene presentato come l’architetto più famoso d’Ungheria e sembra importare negli Stati Uniti l’estetica modernista che aveva studiato alla celebre scuola tedesca del Bauhaus, quando in realtà era già nota da tempo. Oltre a tutte le persone che partecipano al grande sforzo collettivo che è un progetto, dal film sono poi assenti le figure dei celebri architetti suoi contemporanei che il protagonista, per come è raccontato, avrebbe sicuramente conosciuto e potuto frequentare sia in Europa sia lì.

Walter Gropius, il fondatore del Bauhaus, si trasferì negli Stati Uniti nel 1937 e l’anno dopo arrivò anche Ludwig Mies van der Rohe, che aveva guidato la scuola fino a quando i nazisti ne imposero la chiusura. Negli Stati Uniti vennero accolti molto meglio rispetto al personaggio di Tóth, che si mette a spalare il carbone: Gropius per dire insegnò ad Harvard, mentre van der Rohe divenne il direttore dell’Illinois Institute of Technology e probabilmente il principale architetto della ricostruzione degli Stati Uniti. A detta di Lamster, Lange e Miranda nel film sarebbe stata bene anche Lucia Moholy, la fotografa e scrittrice cecoslovacca conosciuta proprio come «la fotografa del Bauhaus»: è insomma inverosimile che Tóth si trovasse isolato come si vede nel film.

I critici ritengono poco credibile anche il fatto che venga celebrato alla Biennale d’architettura a Venezia del 1980, quando il brutalismo era ormai fuori moda.

Il Guardian ha notato che il personaggio interpretato da Brody è ispirato almeno in parte alla vita di Marcel Breuer, un architetto ebreo ungherese che a sua volta si formò al Bauhaus, insegnò ad Harvard e nel 1953 fu incaricato di costruire la nuova chiesa di un monastero in Minnesota. Corbet ha detto di aver consultato un libro che racconta l’evoluzione di quel progetto e di essersi confrontato con lo storico dell’architettura Jean-Louis Cohen, considerato il massimo esperto del periodo: secondo il podcast tuttavia avrebbe assorbito ben poco.

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