Che cosa fu il brutalismo
Tra i movimenti architettonici moderni più divisivi, non è difficile riconoscerlo quando lo si vede

Il movimento architettonico che dà il titolo al nuovo film di Brady Corbet, il brutalismo, è uno dei più divisivi dell’epoca moderna. Sebbene il nome possa sembrare riferito alla sua apparenza grezza e austera, lo si deve in realtà all’espressione francese béton brut, che indica il cemento a vista, indubbiamente il suo elemento più significativo. Si sviluppò in parte per la necessità di ricostruire le città dopo la devastazione della Seconda guerra mondiale, e in parte in reazione alla leggerezza di stili precedenti, come modernismo e Art Nouveau: si diffuse in tutto il mondo, e anche se c’è chi lo ritiene brutto o opprimente negli anni è stato rivalutato.
Probabilmente un edificio brutalista è più facile da riconoscere che da descrivere. Se ne trovano moltissimi in Europa, Italia compresa, ma anche negli Stati Uniti, Australia o Giappone. Sono spesso scuole e uffici pubblici, chiese, palazzi istituzionali o grossi complessi residenziali tutti costruiti tra gli anni Cinquanta e Ottanta e accomunati da forme geometriche nette e rigorose, anche inconsuete. Quasi sempre sono caratterizzati da elementi architettonici identici e modulabili, ripetuti molte volte, e sono di dimensioni imponenti e di un solo colore: il grigio del cemento, motivo per cui hanno un grande impatto visivo.
«Se il modernismo ha a che fare con un’architettura onesta, il design brutalista con un’architettura brutalmente onesta», ha detto alla rivista Architectural Digest Geddes Ulinskas dello studio di San Francisco Geddes Ulinskas Architects.

Il Sirius Building di Sydney, fotografato nel 2017 (AP Photo/ Rick Rycroft)
Il brutalismo si sviluppò nel Regno Unito, in un periodo di enormi sforzi per la ricostruzione dell’edilizia pubblica e residenziale, e in un contesto in cui le risorse erano molto limitate. Da un punto di vista pratico, si privilegiò il materiale meno costoso e più facile da reperire; da un punto di vista estetico, lo si usò nella maniera più semplice, spoglia e minimale possibile. L’idea dietro al brutalismo insomma era che si dovesse dare la priorità alla funzionalità di un edificio, anziché agli elementi decorativi.
Lasciare il cemento a vista era un modo di enfatizzare la forma e le caratteristiche strutturali delle costruzioni, e al contempo di rifiutare la nostalgia per gli stili passati, per riflettere in maniera più accurata il contesto sociale e le esigenze del momento. Nel giro di poco tempo il brutalismo diventò così un riferimento anche altrove, sia per funzionalità che per estetica.

Il Brunswick Centre di Londra, progettato dall’architetto Patrick Hodgkinson, nel gennaio del 1975 (Graham/ Evening Standard/ Hulton Archive/ Getty Images)
In molti attribuiscono la definizione del movimento all’architetto svedese Hans Asplund, che nel 1949 aveva usato per la prima volta il termine nybrutalism. È comunque certo che il concetto di brutalismo venne reso popolare dal critico inglese Reyner Banham, che lo usò in un saggio del 1955 intitolato The New Brutalism per descrivere la scuola realizzata a Hunstanton (in Inghilterra) dagli architetti Alison e Peter Smithson.
Uno dei principali ispiratori dell’estetica brutalista comunque fu l’architetto svizzero naturalizzato francese Le Corbusier, che nel 1952 completò a Marsiglia l’Unités d’Habitation, un complesso di 337 appartamenti di edilizia popolare in grado di ospitare fino a 1.600 persone. Altre tre Unités furono costruite sempre in Francia, mentre un’altra, la Corbusierhaus, a Berlino.

Il Museo nazionale d’arte occidentale di Tokyo (AP Photo/ Shizuo Kambayashi)
Nel tempo il termine brutalismo fu associato in maniera più ampia a diversi edifici che, pur avendone le caratteristiche tipiche, mostravano anche altri stili. È il caso della Torre Velasca di Milano, che venne costruita tra il 1955 e il 1957, o della Nakagin Capsule Tower di Tokyo, nota per la serie di cubi di cemento con finestre a oblò che la rendevano simile a una pila di lavatrici giganti. Nell’Europa orientale, invece, l’impersonalità dello stile brutalista si intrecciò con gli ideali socialisti dominanti nel secondo dopoguerra, e oltre all’architettura civile si espresse nei monumenti disseminati nei territori dell’ex Jugoslavia, noti come “spomenik”.
Altri esempi di edifici brutalisti in Italia sono l’ambasciata del Regno Unito o la palazzina di Piazzale Clodio a Roma, così come il complesso residenziale di Rozzol Melara a Trieste e l’Istituto scolastico Facchinetti a Castellanza, in provincia di Varese. Tra i capolavori del brutalismo italiano c’è anche l’Istituto Marchiondi Spagliardi, realizzato sempre negli anni Cinquanta a Baggio, nella periferia ovest di Milano, dall’architetto Vittoriano Viganò, abbandonato fin dagli anni Settanta e, dopo varie occupazioni abusive, ormai in rovina. Il Comune parlava da tempo della necessità di recuperarlo: quest’anno dovrebbero cominciare i lavori per ristrutturarlo e trasformarlo in uno studentato da circa 170 posti.

La chiesa della Santissima Trinità di Vienna, nota anche come chiesa Wotruba, costruita a metà anni Settanta (Oliver Bolch/ Anzenberger, Contrasto)
La sorte toccata all’edificio di Baggio non è un caso isolato. Il deterioramento causato dalla pioggia che accomuna le facciate in cemento grezzo rese sempre più impopolare il brutalismo, già considerato freddo, austero e alienante. «Non invecchia con eleganza, ma si sbriciola, si macchia e si decompone», scrisse nel 2009 il critico inglese Anthony Daniels, noto anche con lo pseudonimo Theodore Dalrymple: molti edifici così finirono per essere abbandonati, trascurati o associati al degrado urbano, mentre altri destinati alla demolizione (come la Nakagin Capsule Tower, smantellata nel 2022).
Il dibattito sulla bellezza o bruttezza degli edifici brutalisti riemerge ciclicamente, ma negli ultimi tempi la curiosità nei confronti di questa architettura è cresciuta grazie ai social media, dove si trovano moltissimi profili che raccolgono le foto dei più famosi, discussi o improbabili. Alla base dell’attuale rivalutazione del brutalismo c’è anche il gusto per i pattern formati dai suoi elementi modulari, apprezzati sul piano grafico per la loro precisione geometrica e il rigore estetico.

Il complesso residenziale dei Robin Hood Gardens di Londra, progettato alla fine degli anni Sessanta da Peter e Alison Smithson e completato nel 1972. La sua demolizione è cominciata nel 2017 per via di un progetto di riqualificazione della zona. La foto è del 2008. (Jim Dyson/ Getty Images)
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