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  • Lunedì 3 febbraio 2025

Israele e lo sperma

Dall’attacco del 7 ottobre è diventato comune estrarlo dai corpi dei soldati morti per una successiva inseminazione, pratica che ha radicate ragioni storiche e politiche

di Giulia Siviero

Fecondazione di ovuli in laboratorio (AP Photo/Michael Wyke)
Fecondazione di ovuli in laboratorio (AP Photo/Michael Wyke)
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L’11 ottobre del 2023 la regista israeliana Shaylee Atary, sopravvissuta con la figlia di un mese all’attacco di Hamas del 7 ottobre, chiese pubblicamente al governo di recuperare il più rapidamente possibile il cadavere del marito, l’attore e regista Yahav Winner, ucciso dai miliziani, per estrarne lo sperma e avere così la possibilità di «continuare a far crescere la famiglia». Aggiunse anche che «molte donne israeliane» stavano tentando di fare la stessa cosa con i loro mariti e figli morti.

Il cadavere di Winner non fu recuperato in tempo, ma dall’attacco del 7 ottobre 2023 e dall’inizio delle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, secondo i dati del ministero israeliano della Salute è stato estratto lo sperma dai cadaveri di più di 200 uomini in vista di una successiva inseminazione o fecondazione. Dal momento che la maggior parte di loro erano giovani soldati non sposati, la richiesta è arrivata dai loro genitori.

Sono numeri senza precedenti per una pratica che nel contesto israeliano, a differenza di qualsiasi altro posto, è prevalentemente associata a persone legate all’esercito, che prima del 7 ottobre veniva eseguita molto poco e che è regolamentata da linee guida che proprio dopo il 7 ottobre sono state modificate e ampliate. Ma è anche una possibilità che pone questioni etiche complesse, contro cui si sono espressi diversi esperti di bioetica anche israeliani.

In una loro recente ricerca di prossima pubblicazione le studiose e attiviste Maddalena Fragnito dell’Università degli Studi Roma Tre e Federica Timeto dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – che hanno lavorato sul tema analizzando dati, leggi, discorsi di esponenti politici, campagne pubblicitarie delle banche del seme e altre ricerche – sostengono che la promozione e legalizzazione di questa pratica abbia «a che fare con la preservazione genetica del popolo ebraico: con le strategie demografiche per la sopravvivenza dello stato ebraico e con la sua espansione».

Questi sforzi rientrano in un più ampio progetto di politiche a sostegno della fertilità che negli ultimi cinquant’anni molti governi di Israele – tra cui l’attuale di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu – hanno sviluppato e promosso. E se le politiche per la fertilità esistono in tantissimi paesi del mondo, soprattutto in Occidente, in Israele non sono guidate di per sé dalle preoccupazioni per l’invecchiamento della popolazione, dato che il tasso di fertilità in Israele è di gran lunga il più alto tra i paesi dell’OCSE. Hanno profonde implicazioni politiche.

La riproduzione assistita postuma – più nota con l’acronimo PAR, da “Posthumous Assisted Reproduction” – è una tecnica che prevede il prelievo di sperma, ovuli o embrioni prima o subito dopo la morte di una persona, e la successiva crioconservazione del campione (cioè il congelamento a -196 °C in azoto liquido). Nel caso dell’estrazione di sperma da un morto, la PAR prevede la biopsia sul cadavere, l’incisione del testicolo, la rimozione di un pezzo di tessuto, l’isolamento delle cellule spermatiche vive e il loro congelamento. Per migliorare la percentuale di successo della pratica, il prelievo deve essere eseguito entro 24-48 ore dalla morte.

Molti paesi non hanno normative specifiche sulla PAR. Alcuni la vietano esplicitamente (Francia, Germania e Svezia, per esempio), mentre quelli che la prevedono (Canada e Regno Unito) hanno stabilito tra i requisiti necessari per accedervi il preventivo consenso scritto della persona coinvolta. In Ucraina, dopo l’inizio dell’invasione russa, molti soldati hanno iniziato a congelare il loro sperma per garantirsi la possibilità di avere dei figli anche in caso di morte; il parlamento ha da poco approvato una legge che apre a questa possibilità prima non regolamentata.

Israele è l’unico paese a consentire l’estrazione di sperma post mortem anche senza consenso preventivo ma semplicemente in assenza di un’obiezione esplicita e dimostrabile, facendo affidamento sul desiderio della persona morta – presunto o sottinteso – riferito da chi presenta la richiesta.

Introdotta a metà degli anni Novanta, in Israele l’estrazione dello sperma post mortem non è regolata da una legge ma da una serie di direttive, emanate nel 2003 dalla procura generale per dare indicazioni ai tribunali su come accogliere le richieste in questo senso. Inizialmente queste linee guida stabilivano che, per accedere alla PAR, la moglie o la partner abituale del defunto potessero presentare richiesta direttamente all’ospedale o a una clinica della fertilità, ed escludevano dunque i genitori del defunto come possibili promotori della pratica. Le crescenti richieste di questi ultimi, soprattutto genitori di giovani soldati morti, il sostegno di molti avvocati e la pressione di alcune associazioni hanno portato via via alla produzione di un’estesa giurisprudenza favorevole e al conseguente e sostanziale ampliamento dell’applicazione della PAR.

Il primo caso di PAR che ricevette grande attenzione mediatica in Israele risale al 2002, quando i genitori di Keivan Cohen, un soldato diciannovenne ucciso durante un’operazione militare nella Striscia di Gaza, chiesero e ottennero di poterne congelare lo sperma. Cinque anni dopo un tribunale stabilì che quello sperma potesse essere utilizzato. I genitori del sergente lanciarono dunque un appello su YouTube per trovare una donna disposta a portare avanti la gestazione per loro conto: ci furono circa 200 candidate, ne venne selezionata una dopo vari colloqui con psicologi e assistenti sociali e nel 2013 nacque una bambina successivamente riconosciuta come legittima erede del soldato.

Di fatto, dunque, nonostante le linee guida parlassero solo di mogli o partner abituali, anche i genitori dei defunti hanno potuto fare richiesta di accesso alla PAR, passando però dalla richiesta a un tribunale. Dopo l’inizio dell’invasione di Israele nella Striscia di Gaza, il ministero della Salute ha modificato temporaneamente le regole, sospendendo la norma che imponeva di passare dai tribunali. È stata istituita un’unità speciale tra l’IDF, le forze armate del paese, e gli ospedali che ospitano le banche del seme, per offrire alle famiglie dei soldati questa opzione e avviarla il più rapidamente possibile. Questa unità lavora 24 ore su 24, 7 giorni su 7; i parenti dei soldati morti possono raggiungerla chiamando un numero dedicato.

Sul sito del ministero questa liberalizzazione viene esplicitamente legata all’operazione militare avviata da Israele nella Striscia di Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre del 2023 da parte di Hamas, e denominata “Swords of Iron” (Spade di Ferro).

Schermata dal sito del ministero della Salute israeliano, 2024

Negli ultimi mesi, infine, la Commissione sanità della Knesset, il parlamento israeliano, ha discusso una proposta di legge per l’uso dello sperma post mortem che, se approvata, modificherebbe in senso estensivo le linee guida rendendo definitiva la prassi sulla PAR avviata dopo il 7 ottobre.

Per lo stato di Israele le politiche demografiche e pronataliste hanno sempre avuto un’enorme rilevanza politica: rientrano nell’iniziale progetto di costruzione di una nazione su basi etniche, identificata strutturalmente con il popolo ebraico e percepita come garanzia di protezione e risarcimento dopo i massacri subiti nella Seconda guerra mondiale. Ben Gurion, il politico che contribuì più di ogni altro alla fondazione dello stato di Israele nel 1948 e che lo guidò per i primi 15 anni della sua esistenza, parlava così degli incentivi alla natalità: «Se il tasso di natalità ebraico non aumenta, è in dubbio la sopravvivenza dello stato ebraico».

Questi incentivi sono spiegati, legittimati e sostenuti attraverso riferimenti biblici, culturali e storici. Alcuni, tra leader religiosi e politici del passato e del presente, fanno riferimento al precetto religioso dell’ebraismo che prescrive di essere fecondi, moltiplicarsi e riempire la terra. Altri insistono sull’antisemitismo a cui le comunità ebraiche sono state sottoposte per secoli, culminato nell’Olocausto e nello sterminio di sei milioni di persone, facendo dunque leva sulle minacce all’esistenza del popolo ebraico – reali o simboliche – e sul necessario e conseguente consolidamento di una maggioranza ebraica in uno stato ebraico. Il risultato è che storicamente la procreazione individuale è innanzitutto, per Israele, una questione di sopravvivenza collettiva.

Nel loro studio, Fragnito e Timeto spiegano che nella retorica dei governi di Israele la genitorialità «non rappresenta solamente una scelta personale, ma è percepita come un dovere nei confronti della nazione: quello di contribuire alla sopravvivenza fisica e culturale del popolo e dello stato ebraico». In questo contesto, e nella narrazione dei governi, la prole assume un valore intrinseco: trasmettere la tradizione e i valori ebraici per garantirne la sopravvivenza e il rinnovamento. La maternità è stata interpretata come valore fondamentale per l’esistenza di Israele come stato ebraico, e l’infertilità non viene solo vissuta come un problema personale o della coppia ma anche come una questione sociale: e così viene affrontata dallo Stato.

Le politiche pro-nataliste promosse dai governi israeliani negli ultimi cinquant’anni, proseguono Fragnito e Timeto, possono essere classificate in due principali categorie: «le politiche migratorie per attrarre persone ebree dall’estero», basate su una serie di programmi che prevedono incentivi monetari e sociali per chi poi sceglie di rimanere e farsi una famiglia, e le politiche pro-nataliste pure che «fin dalla fondazione dello stato di Israele, sono state promosse dalle istituzioni attraverso sussidi sociali, assistenziali, premi statali, fondi e comitati, spesso destinati alle sole famiglie ebree».

Questa spinta si serve da tempo anche delle nuove tecnologie di riproduzione assistita e ha portato allo sviluppo di politiche di fecondazione estremamente liberali e sostenute dai fondi pubblici, tanto che Israele viene spesso definito una «superpotenza della fertilità», all’avanguardia nello sviluppo di sofisticate e nuove tecnologie.

Non è un caso che Israele sia un’eccezione rispetto alle tendenze sul calo delle nascite e ai tassi di crescita della popolazione generalmente bassi o negativi di tante nazioni. E nemmeno che Israele sia il paese al mondo con il maggior numero di cliniche per la fertilità in rapporto alla popolazione, nessuna delle quali si trova in ospedali arabo-israeliani: i cittadini israeliani risultano i maggiori fruitori di fecondazione in vitro a livello globale. Israele è l’unico paese al mondo dove la fecondazione in vitro è finanziata interamente e per un numero illimitato di tentativi fino al secondo figlio, e ha uno dei tassi di successo più alti al mondo per questa procedura.

L’insieme di queste politiche, delle leggi e delle narrazioni portate avanti dai governi di Israele, è infine intrinsecamente legato non solo a una logica demografica nazionalista ma, secondo Fragnito, Timeto e altri, anche «militarista e coloniale insediativa», perché si accompagna ai tentativi di contenimento della fertilità e dei tassi di natalità nella popolazione palestinese. Fragnito e Timeto parlano di «tecnogestione della fertilità» che presuppone la non riproduttività della popolazione palestinese i cui alti tassi di fertilità sono stati storicamente inquadrati dai media e dai politici israeliani come una «bomba demografica a orologeria» per la sopravvivenza dello stato ebraico.

Che le politiche pronataliste di Israele siano selettive, cioè immaginate e implementate per promuovere la fertilità degli ebrei e non la fertilità in generale, emerge dalla loro storia. Quando tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, sotto il governo di Menachem Begin, venne abolito il diritto all’aborto per ragioni economiche, alle donne palestinesi e solo a loro venne lasciato il diritto di accesso gratuito ai contraccettivi.

Ma ancora prima, quando nel 1949 l’allora primo ministro israeliano Ben Gurion lanciò l’iniziativa delle “Madri Eroine” per premiare le donne che partorivano dieci figli, sottolineò l’importanza simbolica del tasso di natalità ebraica per l’esistenza della nazione, parlò esplicitamente della maternità come missione nazionale, equiparò il parto al servizio militare per gli uomini e diede la responsabilità di gestire tali incentivi all’Agenzia ebraica, per assicurarsi che andassero alle sole famiglie ebree.

La gestazione per altri, oggetto di fortissime polemiche e grandi opposizioni in Italia e in molte altre nazioni, in Israele fu regolamentata nel 1996: sia per garantire che le pratiche avvenissero con gli standard sanitari che Israele era in grado di fornire, sia per garantire la trasmissione dell’identità ebraica e il controllo delle regole della trasmissione matrilineare – in base alle quali la religione ebraica di un neonato è determinata dalla religione ebraica della madre. Il legislatore inserì quindi una clausola che richiede alla gestante e alla madre intenzionale di condividere la stessa religione per accedere alla pratica. L’interreligiosità non è ammessa nemmeno nella donazione di ovuli.

In uno studio pubblicato nel 2024 la ricercatrice belga Sigrid Vertommen ha citato come esemplificativa di una posizione generale e assunta a livello istituzionale la risposta fornita da uno specialista della fertilità, a cui venne chiesto un parere sull’inclusione della clausola religiosa nella legge sulla donazione di ovuli: «Non volevamo mescolarci tra popolazioni e mettere, diciamo, un ovulo ebreo in una donna araba».

Fragnito e Timeto concludono il loro studio raccontando di come anche la militarizzazione della società israeliana abbia un ruolo decisivo nelle tecnologie riproduttive: «Coinvolge direttamente e in modo evidente le banche del seme, che hanno incorporato il background militare dei donatori nei loro profili, promuovendolo anche attraverso una serie di campagne pubblicitarie che mostrano per esempio uno spermatozoo con l’elmetto e assume una nuova dimensione con la raccolta dello sperma dai corpi dei soldati deceduti per la riproduzione postuma».

La loro tesi è supportata da molte altre ricerche. Il ricercatore palestinese Araj Izzeddin, esperto di demografia, studi coloniali e politiche della riproduzione, dice che i militari in Israele «sono venerati come l’incarnazione della mascolinità nazionale» e che «l’atto di paternità postuma è percepito come un omaggio a questi soldati caduti, un mezzo per garantire che la loro eredità duri». Citando le ricerche di un importante sociologo israeliano, Baruch Kimmerling, aggiunge che «la virilità israeliana è costruita attorno al concetto del combattente maschio» che lotta per proteggere la nazione, «mentre a una donna viene assegnata la missione di far nascere e far rinascere la nazione».

In questo contesto il seme dei soldati, prosegue Izzeddin, è visto come il portatore materialistico della loro essenza spirituale e del loro ruolo di difensori della nazione; il guerriero-donatore diviene «sia il fornitore del prodotto che il prodotto principale stesso» e i futuri nascituri non sono solo nuovi membri della famiglia e figli, ma anche e principalmente futuri soldati e parte di una continuità più ampia: quella di Israele. La manifestazione di questo passaggio dall’individuale al collettivo, scrive sempre Araj Izzeddin, è esemplificata dai casi in cui i soldati non hanno una partner: «In questi casi, le famiglie spesso cercano donne volontarie, molte delle quali non hanno mai incrociato il cammino del defunto, per portare potenzialmente in braccio i propri figli. Incredibilmente, il reclutamento di queste volontarie si è rivelato meno impegnativo del previsto. Infatti, quando le famiglie hanno cercato volontarie o pubblicizzato la loro ricerca attraverso i media e le piattaforme social, hanno ricevuto una valanga di risposte».