Le prigioniere di Auschwitz che cucivano per le mogli dei nazisti
Un gruppo di donne con esperienze di alta sartoria si salvò lavorando in un laboratorio voluto da Hedwig Höss, moglie del comandante del campo

Nel 2017 la scrittrice inglese Lucy Adlington, storica della moda e autrice di libri per adolescenti, pubblicò un romanzo intitolato Il nastro rosso ambientato in una sartoria nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia, che fu liberato dai soldati dell’Armata Rossa sovietica il 27 gennaio del 1945, esattamente ottant’anni fa. Il romanzo era liberamente tratto da una storia vera, come si dice: Adlington l’aveva appresa anni prima consultando alcuni documenti che citavano un’attività di alta sartoria nel campo. Era riuscita a raccogliere solo poche informazioni e un elenco di nomi, ma nessuna testimonianza diretta, e aveva quindi interrotto le sue ricerche.
Dopo l’uscita del libro, che ebbe molto successo, Adlington ricevette diverse email che contenevano più o meno gli stessi messaggi: «Mia zia era sarta ad Auschwitz», «Mia madre era sarta ad Auschwitz», «Mia nonna dirigeva la sartoria per signora di Auschwitz». Riuscì per la prima volta a mettersi in contatto con le famiglie di quelle prigioniere di cui conosceva soltanto i nomi e nessun cognome, e a incontrare nel 2019 a San Francisco l’ultima sopravvissuta di quel gruppo: la slovacca Berta Kohút.
Nelle fasi più acute dello sterminio ad Auschwitz Kohút fu selezionata insieme a sua sorella Katka e ad altre ventitré giovani prigioniere, quasi tutte ebree slovacche, per disegnare, tagliare e cucire abiti destinati alle mogli dei comandanti del campo e ad altre donne dell’élite nazista di Berlino. Alcune internate avevano infatti lavorato come cucitrici in rinomati atelier a Praga, Bratislava e altre città dell’Europa orientale, prima dell’inizio della guerra. Le loro abilità e la loro manodopera furono sfruttate nel «Laboratorio di alta sartoria» (Obere Nähstube), un atelier ideato e aperto nel seminterrato degli uffici amministrativi delle SS da Hedwig Höss, moglie dell’ufficiale nazista e comandante del campo Rudolf Höss.
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La storia di Berta Kohút e delle prigioniere che si salvarono dallo sterminio lavorando nel laboratorio di sartoria è raccontata nel libro di Adlington Le sarte di Auschwitz, uscito nel 2021 e tradotto in ventidue lingue (in italiano da Chicca Galli, per Rizzoli). Kohút aveva 21 anni nel 1942, quando fu deportata nel campo insieme a sua sorella e a un migliaio di altre ragazze più o meno della stessa età. Appena arrivate, come ogni altro prigioniero, furono private di tutti i loro indumenti e destinate a lavori diversi.
Per quanto la moda sembrasse distante dalla politica e apparisse una stridente frivolezza rispetto alla violenza della guerra, scrive Adlington, i nazisti erano «perfettamente consapevoli della capacità dell’abbigliamento di plasmare l’identità sociale ed enfatizzare il potere». Inoltre, già prima dell’inizio della guerra, alcune loro politiche economiche e razziali si erano concentrate sulla ricchezza dell’industria tessile europea, all’epoca dominata dal capitale e dal talento di diverse famiglie ebree. I guadagni estorti a quelle aziende e imprese, come successo anche in altri settori, avevano contribuito al finanziamento delle operazioni militari.
Il fascino degli uomini nazisti per l’abbigliamento e per il potere che poteva esprimere si era concretizzato perlopiù nel culto delle uniformi, considerate un simbolo perfetto dell’orgoglio e dell’identità di gruppo. Ma anche le donne dell’élite nazista berlinese, soprattutto le facoltose mogli dei gerarchi, attribuivano grande valore agli abiti.

Magda Goebbels impegnata in una raccolta fondi per il finanziamento dei sussidi di disoccupazione, al ministero dell’Aviazione del Reich a Berlino, il 3 dicembre 1938 (AP Photo)
Magda Goebbels, moglie dell’influente ministro della propaganda del Reich Joseph Goebbels, era nota per la sua eleganza, e non si faceva problemi a indossare abiti di sartoria creati da famiglie ebree. Emmy Göring, moglie del comandante dell’aviazione Hermann Göring, indossava anche abiti confiscati, sostenendo di non sapere da dove provenissero, scrive Adlington. Ed Eva Braun, amante di Adolf Hitler, era un’altra appassionata di alta moda: negli ultimi giorni prima della resa tedesca, mentre Berlino era assediata, si adoperò per ricevere comunque l’abito con cui avrebbe sposato Hitler nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1945, poche ore prima che si suicidassero entrambi.
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L’idea di aprire un laboratorio di sartoria fu della moglie del comandante del campo, Hedwig Höss, che tra il 1941 e il 1944 abitò con la sua famiglia ad Auschwitz nella casa in cui è ambientato il film del 2023 La zona d’interesse. Höss era tra le principali clienti del laboratorio, e le prigioniere selezionate per gestirlo avevano in gran parte lavorato come sarte, stiliste e cucitrici prima della guerra. Realizzarono vestiti da tutti i giorni ma anche eleganti abiti da sera «che le signore delle SS non avrebbero potuto immaginare nemmeno nei loro sogni», raccontò poi Hunya Volkmann, una delle sarte dell’atelier.
A dirigere il laboratorio era Marta Fuchs, ex proprietaria di un salone a Praga, città nota all’epoca nell’industria della moda per la presenza di molti atelier indipendenti come quello di Fuchs. Il più importante, la maison de haute couture della stilista Hana Podolská, aveva vestito diverse attrici del cinema. Fuchs era molto abile soprattutto nel taglio, ma nel laboratorio di Auschwitz insieme a lei c’erano anche cucitrici esperte. Due di loro erano ragazze francesi deportate per atti di resistenza: una era stata arrestata perché contrabbandava opuscoli antinazisti nascondendoli nei corsetti che realizzava.
Il laboratorio aveva a disposizione un raccoglitore con disegni preselezionati ma anche molte riviste di alta moda, da cui le clienti selezionavano i capi che volevano che le sarte riproducessero. Alcune, tra cui Volkmann, erano capaci di ricreare un abito semplicemente osservandolo in foto. I risultati erano così apprezzati che a un certo punto il tempo di attesa per avere gli abiti della sartoria di Auschwitz arrivava a sei mesi.

Eva Braun, a sinistra, e sua sorella minore Margarete Berta con uno degli scottish terrier di Hitler nella residenza privata a Berchtesgaden, in Baviera, nel 1943 (Galerie Bilderwelt/Getty Images)
Era tutto alquanto surreale e contraddittorio, disse Adlington a El País nel 2022. Quando gli abiti erano pronti, i nazisti volevano che le stesse persone che li avevano confezionati nemmeno li toccassero, considerandole esseri inferiori come ogni altro prigioniero.
Le sarte vivevano e lavoravano tutto il tempo in quel seminterrato, senza vedere la luce del sole per giorni, ma in una condizione invidiabile rispetto alle altre prigioniere nel campo. Creare abiti permetteva loro di evitare lavori più duri, di dormire in un posto con meno pidocchi e cimici rispetto ad altri, e di sfruttare un talento che avevano in cambio di una zuppa di rape o una crosta di pane con un pezzo di salsiccia. «Erano schiave, ma erano le prigioniere più privilegiate. Quella minoranza aveva l’opportunità di essere umana», disse Adlington.
Nel laboratorio non lavorarono soltanto donne con esperienza di sartoria. Le prime prigioniere selezionate da Höss e incaricate di reclutarne altre in grado di fare quel lavoro sfruttarono la loro posizione per salvare compagne e parenti nel campo. Fuchs coinvolse sua nipote, che aveva scarse competenze di cucito e diede quindi aiuto con altri lavori. Fece chiamare anche una sua parente acquisita, Irene Reichenberg, che faceva la sarta prima della deportazione: era stravolta dalla morte di tre sue sorelle nel campo, quando la convocarono negli uffici amministrativi.
Dopo qualche settimana, dato che gli ordini erano troppi e le sarte poche, Reichenberg disse a Fuchs di far chiamare una sua amica sarta «bravissima»: era Berta Kohút. «Su diecimila donne ad Auschwitz-Birkenau ce n’erano almeno cinquecento brave a cucire, ma per avere fortuna dovevano avere dei buoni contatti», raccontò poi Kohút ad Adlington. Anche lei, una volta arrivata nel laboratorio, chiese a sua volta di reclutare sua sorella Katka, che nel laboratorio si specializzò in cappotti e tailleur.
Katka era anche una delle addette a smistare per tipo e qualità le nuove pile di indumenti che i nazisti sequestravano ai prigionieri al loro arrivo. I vestiti già adatti a essere indossati, come pellicce e camicie da uomo di prima qualità, venivano disinfettati e caricati su treni merci diretti in Germania. Tutti gli altri, inclusi gli stracci ridotti in brandelli, finivano nel laboratorio come scorta di tessuti.

Le baracche in cui dormivano le altre prigioniere nel campo di Auschwitz, in una foto del 24 gennaio 2025 (Zhang Kun/Xinhua/Abacapress.com)
Il laboratorio si serviva anche di tessuti reperiti tramite fornitori esterni, che le sarte utilizzarono quando possibile anche come intermediari per fare arrivare al resto dei prigionieri di Auschwitz informazioni sull’evoluzione della guerra e messaggi di altro tipo. Quando fu ordinata l’evacuazione del campo, giorni prima dell’arrivo dei soldati sovietici il 27 gennaio, le sarte raccolsero per loro e per gli altri prigionieri quanti più indumenti poterono dal laboratorio prima di marciare attraverso la Polonia occupata.
La maggior parte di loro riuscì a salvarsi e a rifarsi una vita. Alcune rimasero in contatto, molte sposarono altri sopravvissuti. Una di loro, Ilona Hochfelder, si trasferì a Leeds, in Inghilterra, dove aprì un rinomato atelier di abiti da sposa. Ebbero quasi tutte difficoltà a parlare della loro storia ai figli, scrive Adlington. Cominciarono invece a raccontarla ai nipoti, più curiosi e meno spaventati.
Berta Kohút sposò uno scrittore a cui era morta la moglie in un campo di sterminio. Vissero per un po’ a Bratislava ed ebbero due figli, che diventati grandi si trasferirono in California. I genitori li raggiunsero lì nel 1968, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Ultima sopravvissuta nota di quel gruppo di sarte, Kohút morì in California nel 2021, a 99 anni, dopo aver contratto il Covid. Ad Auschwitz trascorse in tutto mille giorni. «Ogni giorno sarei potuta morire mille volte», disse ad Adlington.