Quante scimmie servirebbero per riscrivere tutto Shakespeare?

Infinite, dice un teorema discusso da un secolo e ristudiato di recente, ma il nostro Universo probabilmente non basta

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«Essere o non essere, questo è il bolema», scrisse la scimmia sulla sua macchina per scrivere, raccogliendo la forte disapprovazione di Montgomery Burns, il ricchissimo proprietario della centrale nucleare di Springfield. È una delle gag più famose e ricordate della serie a cartoni animati I Simpson, in cui Burns illustra a Homer Simpson il suo fallimentare progetto di far riscrivere a un gruppo di scimmie le opere di William Shakespeare (Charles Dickens nella versione originale), traendo ispirazione da un famoso teorema discusso da almeno un secolo, soprattutto dai matematici, per rispondere a una domanda.

Un numero infinito di scimmie, con tempo infinito a disposizione, riuscirebbe a riscrivere per puro caso tutti i versi delle opere di Shakespeare?

Trovare una risposta al teorema delle scimmie infinite (o della scimmia instancabile), navigando tra concetti spesso controintuitivi come quelli di probabilità e infinito, non è semplice e nei decenni ha portato a diatribe e ad accesi confronti, rinfocolati di recente da un nuovo studio che ha messo a modo suo in dubbio la possibilità di cavare realisticamente qualcosa dalle scimmie dattilografe.

Per comprendere le conclusioni del nuovo studio occorre partire da lontano nel tempo, quando nel 1913 il matematico francese Émile Borel illustrò il teorema, mettendo ordine tra proposte e idee circolate in precedenza. Le scimmie a cui aveva pensato erano una metafora per rendere meno astratta l’idea di una produzione casuale di sequenze di lettere, alla base del teorema. L’idea è che le scimmie potrebbero battere a macchina qualsiasi testo finito un infinito numero di volte. La generalizzazione del teorema è che quindi ogni sequenza di eventi che ha una probabilità diversa da zero di accadere possa succedere un infinito numero di volte, a patto di avere un’infinita quantità di tempo o un Universo infinito.

Nei decenni successivi il teorema subì varie evoluzioni e interessò non solo i matematici, ma anche i primi informatici che iniziavano a disporre di computer per effettuare simulazioni su grande scala. Alla fine degli anni Settanta un professore di Yale, una delle più prestigiose università negli Stati Uniti, aveva segnalato di aver ottenuto sequenze di lettere che messe insieme avevano un certo significato, anche se non comparabili con i versi di Shakespeare. Circa quarant’anni dopo un programmatore statunitense disse di avere ottenuto risultati ancora migliori, ma impostando un sistema che aveva alcune limitazioni in sostanza per ridurre l’aleatorietà dei risultati.

Per il suo nuovo studio, il matematico australiano Stephen Woodcock ha scelto una strada diversa, immaginando che il compito affidato alle scimmie debba comunque fare i conti con la finitezza del tempo dell’Universo, per come lo conosciamo. E in effetti anche la durata dell’Universo è un argomento dibattuto, soprattutto per l’ipotesi che intorno ai dieci sediciliardi (cioè un googol, un 1 seguito da cento 0) di anni si raggiunga la morte termica, o entropica, in cui non c’è più energia libera per compiere lavoro. Secondo Woodcock arriveremo a quel punto senza che le scimmie abbiano finito di scrivere a macchina tutto Shakespeare.

Ipotizzando che una scimmia abbia a disposizione una tastiera di 30 tasti, le probabilità di comporre correttamente il “To” di «To be or not to be» (cioè «Essere o non essere» dell’Amleto) sono 1 su 900. Ogni nuova lettera seguente aggiunge però 29 possibilità di errore. Woodcock ha calcolato che per una parola semplice e con ripetizioni di molte lettere come “bananas” (banana al plurale, sempre in inglese) le probabilità di successo sono 1 su 22 miliardi.

Lo studio dice che se anche la durata dell’Universo venisse estesa svariati miliardi di volte, non ci sarebbe comunque speranza di raggiungere l’obiettivo del teorema. In questo senso secondo Woodcock i presupposti stessi del teorema sono fallaci, perché non si confrontano con uno scenario realistico legato alla possibilità di ottenere quell’obiettivo nella pratica.

Woodcock ha immaginato che per l’esperimento siano utilizzati gli scimpanzé, vista la loro maggiore vicinanza alla nostra specie, e che possano essercene 200mila disponibili, cioè quanti si stima che ce ne siano in questo momento sulla Terra. Ha poi ipotizzato che la loro popolazione rimanga stabile nel corso di ere lunghissime, che ci siano macchine per scrivere a sufficienza, così come carta e inchiostro. Ogni scimpanzé ha inoltre un’aspettativa di vita intorno ai 30 anni, altro dettaglio da tenere in considerazione. Sulla base di tutto questo, l’articolo esclude che il nostro Universo sia sufficiente per riscrivere tutte le opere di Shakespeare da un’orda di scimpanzé.

Il lavoro di Woodcock è stato accolto con interesse e un certo scetticismo, visto che si discosta da alcuni elementi importanti del teorema per come fu esposto da Borel. È stato criticato per non riuscire a fare correttamente i conti con il concetto di infinito, che in matematica ha più sfumature e implicazioni di quanto si possa immaginare. Interpellato dal New York Times su queste critiche, Woodcock ha risposto:

Lo studio che abbiamo fatto è consistito interamente in un calcolo finito su un problema finito. Il punto è quanto siano limitate le risorse del nostro Universo. I matematici possono concedersi il lusso del concetto di infinito, ma se vogliamo trarre significato dai risultati che coinvolgono limiti all’infinito, dobbiamo capire se hanno qualche rilevanza nel nostro universo finito.

La mancanza di supervisione del lavoro delle scimmie rende ancora più improbabile la possibilità di arrivare a un risultato accettabile. Nel processo per prove ed errori le scimmie dovrebbero imparare a scrivere, un po’ come avviene con i processi usati per allenare i sistemi di intelligenza artificiale. In questi ultimi ci sono però accorgimenti per supervisionare i risultati e orientarli, cosa che nel teorema non è prevista. I più critici nei confronti di Woodcock hanno fatto notare che l’approccio teorico dovrebbe essere prettamente matematico, quindi su un livello diverso da quello dei risultati che si potrebbero ottenere nella pratica.

A dirla tutta, una ventina di anni fa ci fu qualcuno che prese alla lettera gli assunti di partenza, seppure su scale finite e più piccole. Nel 2003 un gruppo di ricerca mise un computer all’interno dell’ambiente in cui vivevano sei macachi, per vedere che cosa avrebbero prodotto interagendo con la tastiera. Divennero in effetti i coautori di un documento di cinque pagine, che conteneva soprattutto la lettera “S”. Tra le parole scritte, non ce n’era nemmeno una di senso compiuto. La loro composizione fu comunque pubblicata in un’edizione limitata con un titolo incoraggiante per gli altri primati non umani là fuori: Appunti verso l’opera completa di Shakespeare. Tecnicamente, in ogni caso, anche questo articolo è stato scritto da una scimmia.