Dove nasce l’inghippo del parlamento sulla Corte costituzionale

Dopo più di un anno e dodici votazioni sembrava arrivato il momento di eleggere i giudici mancanti, e invece no: per la Corte sarà un bel problema

L'aula della Camera durante la votazione in seduta comune per l'elezione dei quattro giudici della Corte costituzionale, il 14 gennaio 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
L'aula della Camera durante la votazione in seduta comune per l'elezione dei quattro giudici della Corte costituzionale, il 14 gennaio 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
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A mezzogiorno e un quarto di martedì i deputati di Forza Italia hanno ricevuto sulla loro chat di gruppo un messaggio da Mauro D’Attis, delegato d’aula e dunque addetto a gestire le convocazioni e a dare le indicazioni operative sull’attività quotidiana: «Cari colleghi, oggi si vota (ancora) scheda bianca». Contemporaneamente i parlamentari del Partito Democratico raccontavano di aver ricevuto le stesse indicazioni dalla segretaria Elly Schlein, che li aveva convocati per una riunione: «Prendiamo atto che nella maggioranza di destra non ci sono le condizioni», spiegava il senatore Andrea Giorgis. Mancava una quarantina di minuti all’inizio della votazione per l’elezione dei quattro giudici della Corte costituzionale, ma era già chiaro che anche questa seduta, la tredicesima, sarebbe stata inconcludente.

È dal novembre del 2023 che la Corte costituzionale esercita senza il numero completo dei suoi componenti, che in situazioni ordinarie sono quindici. Cinque di questi sono indicati dal parlamento in seduta comune, cioè con votazioni a cui partecipano contemporaneamente deputati e senatori. Da ormai 14 mesi, però, Camera e Senato non riescono a trovare un’intesa sui nomi, nonostante il presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia più volte ribadito, e spesso con toni piuttosto assertivi, l’urgenza di eleggere i giudici mancanti e consentire alla Corte di svolgere in maniera ordinata il suo delicato ruolo.

Alla base di questo stallo – che dura da più di un anno e che diventa sempre più insolito e imbarazzante per il parlamento – c’è soprattutto l’indecisione di Forza Italia. Il partito di Antonio Tajani è diviso al suo interno sulla persona da indicare: nel giro di poche settimane ha ipotizzato di proporre due suoi importanti esponenti, poi un avvocato vicino alla famiglia Berlusconi, poi una giurista gradita anche al Movimento 5 Stelle. Alla fine, in un crescendo di confusione alimentato perfino da un caso di parziale omonimia, i tentennamenti di Tajani hanno di fatto impedito al governo e ai partiti di opposizione di trovare un’intesa sui quattro nomi da indicare.

E così è ormai molto probabile che entro il prossimo 20 gennaio la Corte costituzionale dovrà esprimersi su un quesito politicamente molto delicato, quello sull’ammissibilità del referendum abrogativo sull’autonomia differenziata, operando con soli 11 giudici, cioè il numero minimo consentito per legge perché la Corte possa deliberare. Basterebbe un contrattempo di uno dei giudici, un impedimento di qualsiasi tipo, per compromettere la validità delle decisioni della Corte.

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In realtà per lungo tempo i partiti non l’hanno neppure cercata, una soluzione. Hanno infatti aspettato che, oltre al mandato di Silvana Sciarra terminato nel novembre del 2023, arrivassero a scadenza anche altri tre giudici nel dicembre del 2024. A quel punto, essendoci più membri da indicare, sarebbe stato più facile trovare un accordo tra maggioranza e opposizione, che in questo tipo di votazione è quasi sempre necessario: per l’elezione dei giudici costituzionali è infatti richiesta una maggioranza molto ampia (i due terzi dei parlamentari nei primi tre scrutini, e i tre quinti dal quarto in poi). Per questo si cerca molto spesso un accordo tra destra e sinistra che accontenti un po’ tutti, con i partiti che votano anche i candidati a loro meno graditi con la promessa di ottenere la maggioranza anche sul proprio candidato preferito.

In realtà a inizio ottobre Giorgia Meloni aveva tentato una mezza forzatura: far eleggere il suo candidato (il giurista Francesco Saverio Marini, suo consigliere giuridico a Palazzo Chigi) puntando sui soli voti dei partiti di destra, e cercando di accaparrarsi qualche sparuto sostegno da parte delle opposizioni, necessario per ottenere i tre quinti. Doveva essere una mossa a sorpresa, ma era stata rivelata in anticipo ai giornalisti dagli stessi parlamentari di Fratelli d’Italia, e così il piano è saltato.

Il consigliere giuridico di Giorgia Meloni, Francesco Saverio Marini, interviene ad Atreju il 15 dicembre 2023 (ALESSANDRO DI MEO/ANSA)

Da allora è parso evidente che si sarebbe dovuta attendere la tredicesima votazione: quella in cui per tutti e quattro i giudici da eleggere sarebbe stata necessaria la soglia dei tre quinti (quando Meloni aveva provato la forzatura servivano i due terzi per tre giudici, e i tre quinti per uno solo). Era stato tutto rimandato al 14 gennaio, giusto in tempo per fare in modo che la Corte potesse tornare nella pienezza della sua composizione prima di riunirsi il 20 gennaio. Dovrà decidere su diverse questioni, tra cui come detto una non da poco: se sia legittimo convocare nella prossima primavera la consultazione per abolire la legge sull’autonomia differenziata, che è già stata profondamente modificata e parzialmente dichiarata incostituzionale dalla stessa Corte lo scorso novembre.

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Il giorno prima di questa tredicesima votazione sui giudici della Corte Costituzionale gli accordi tra i partiti sembravano definiti. Fratelli d’Italia ribadiva il sostegno a Marini; Schlein aveva rinunciato al suo candidato iniziale, Andrea Pertici, sostituendolo con uno ritenuto meno radicale e soprattutto meno inviso all’ala più moderata del PD (e a Italia Viva di Matteo Renzi), cioè Massimo Luciani. Restavano poi da indicare altri due giudici: uno, stando all’accordo raggiunto tra maggioranza e opposizione, avrebbe dovuto sceglierlo Forza Italia, l’altro sarebbe stato invece scelto tra una rosa di profili cosiddetti “tecnici”, cioè meno connotati politicamente. I giudici scelti dai partiti erano tutti e tre uomini, perciò si era deciso che la quarta persona (il profilo più “tecnico”) dovesse essere una donna: è qui che si è creato l’inghippo.

Forza Italia era stata a lungo combattuta tra l’indicare uno tra Francesco Paolo Sisto, senatore e viceministro della Giustizia, e Pierantonio Zanettin, senatore ed ex membro del Consiglio superiore della magistratura. Sono due con un profilo molto politico, ma entrambi autorevoli: solo che su di loro col tempo si sono concentrate varie perplessità.

Sisto per essere eletto avrebbe dovuto lasciare i suoi ruoli da viceministro e senatore: Forza Italia non voleva rischiare di perdere da un lato un esponente in un ministero importante come quello della Giustizia, e dall’altro un seggio in parlamento (quello di Andria, in cui venne eletto alle politiche del 2022). Per riassegnare quel seggio sarebbero state necessarie elezioni suppletive e non era detto che le vincesse la destra. Per Zanettin questo problema invece non c’era, perché era stato eletto in un collegio proporzionale (e in quel caso il seggio al Senato sarebbe passato automaticamente a un’altra esponente di Forza Italia, la padovana Roberta Toffanin).

Antonio Tajani e Francesco Paolo Sisto durante una conferenza stampa di Forza Italia a Roma, il 3 ottobre 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Nel momento decisivo però Tajani ha preferito non sbilanciarsi su nessuno dei due nomi, per evitare di alimentare tensioni e divisioni dentro al partito tra chi preferiva uno e chi l’altro. Ha valutato a quel punto un altro candidato, l’avvocato Andrea Di Porto, in passato legale di Silvio Berlusconi e gradito alla famiglia dell’ex presidente del Consiglio. Contemporaneamente ha avuto dei contatti (direttamente o attraverso dei parlamentari che hanno fatto da intermediari) con i leader delle opposizioni, e in particolare con Giuseppe Conte per capirne le intenzioni: da questi confronti è nata l’ipotesi che Forza Italia proponesse, intestandosela come una sua scelta, una candidata inizialmente considerata tra i possibili profili “tecnici” e gradita al M5S, Gabriella Palmieri Sandulli. Quest’ultima era stata nominata dal governo di Conte nell’agosto del 2019 all’avvocatura dello Stato (l’organismo che assiste e rappresenta lo Stato nelle controversie legali). In cambio, Forza Italia avrebbe così ottenuto dal M5S i voti necessari nella commissione di Vigilanza della Rai per eleggere Simona Agnes, la candidata che il partito di Tajani sta cercando di promuovere da mesi alla presidenza della televisione pubblica senza però riuscirci.

Questo complicato scambio di favori è parso in realtà subito abbastanza improbabile, ma ha contribuito ad alimentare il caos dentro Forza Italia, al punto che lunedì a un certo punto alcuni dirigenti del partito vicini a Tajani hanno iniziato a fare delle verifiche su due diverse “Sandulli”, entrambe napoletane, senza accorgersi del caso di parziale omonimia in cui erano incappati: non era chiaro, infatti, se davvero Tajani stesse pensando a Gabriella Palmieri Sandulli avvocata generale dello Stato o a Maria Alessandra Sandulli, giurista di grande esperienza (e figlia di Aldo Mazzini Sandulli, ex presidente della Corte costituzionale), già nel 2014 considerata come possibile candidata condivisa tra centrodestra e centrosinistra per l’elezione alla Corte.

Questo disorientamento ha fatto sì che lunedì sera la riunione tra i leader di maggioranza convocata da Meloni per definire l’accordo generale si concludesse senza alcun esito. Per farla breve, le troppe ipotesi prese in considerazione non erano tra loro compatibili. Martedì Forza Italia non ha indicato un suo candidato e le trattative si sono interrotte.

Resta adesso l’ipotesi di una nuova convocazione per giovedì: se si eleggessero i giudici, ci sarebbe a malapena il tempo per le verifiche tecniche e i passaggi burocratici necessari per consentire ai quattro nuovi eletti di entrare pienamente in carica entro lunedì prossimo. Per ora però è uno scenario inverosimile. È più probabile che si rinvii tutto alla settimana prossima, cioè appena dopo le importanti decisioni che la Corte dovrà prendere il 20 gennaio: una prospettiva che renderebbe ancora più evidente l’inconcludenza del parlamento e in particolare della maggioranza di governo.

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