Questa volta alle elezioni in Kashmir ci sono anche candidati separatisti
Dopo anni di boicottaggi: vogliono tenere fuori dal governo locale il partito di Narendra Modi, che nel 2019 aveva tolto allo stato indiano a maggioranza musulmana quasi tutta la sua autonomia
Mercoledì in Kashmir, regione settentrionale dell’India, sono cominciate le elezioni per il parlamento statale: sono le prime dal 2019, cioè da quando il primo ministro indiano Narendra Modi revocò alla regione lo “status speciale” e quindi una buona parte della sua autonomia. Il Kashmir è una regione con caratteristiche uniche in India: è a maggioranza musulmana (68 per cento), mentre il resto dell’India è prevalentemente induista, ed è al centro di una contesa decennale col Pakistan, che lo rivendica come proprio dal 1947 e che per questo ha combattuto diverse guerre contro l’esercito indiano. Le elezioni in Kashmir sono anche le prime dopo quelle per il parlamento federale, vinte dal partito di Modi, Bharatiya Janata Party (BJP), ma con molto meno margine del previsto.
Per tutti questi motivi sono considerate elezioni piuttosto importanti, nelle quali per la prima volta dopo molto tempo ci sono candidati separatisti, cioè quelli che vorrebbero dare al Kashmir maggiore autonomia dal governo centrale. Ci si aspetta anche un’affluenza molto più alta del solito, soprattutto perché molti oppositori di Modi hanno detto che andranno a votare per tentare di escludere il suo partito dal governo locale.
Come avviene in altri stati dell’India, il processo elettorale sarà abbastanza lungo: è diviso in tre momenti (in cui verranno coinvolte diverse circoscrizioni) e si concluderà l’8 ottobre, giorno in cui è prevista la pubblicazione dei risultati.
Dal 1947, e cioè da quando il Regno Unito decise di abbandonare la colonia indiana e concedere l’indipendenza, dividendo i territori in due stati (la partizione fra India e Pakistan), in Kashmir si sono tenute 12 elezioni locali, sempre caratterizzate da grosse violenze e boicottaggi. I leader dei principali partiti separatisti hanno sempre invitato gli elettori all’astensione perché consideravano le elezioni una forma di legittimazione del controllo indiano sul territorio.
In virtù della sua storia e della sua composizione demografica, la Costituzione indiana entrata in vigore nel 1950 assegnò al Kashmir uno “status speciale”, che gli garantiva tra le altre cose un altissimo grado di autonomia.
Nell’agosto del 2019 Modi decise di revocare l’autonomia al Kashmir, la qualifica di stato al pari degli altri e di dividerlo in due “territori”: uno ha continuato a chiamarsi Jammu e Kashmir, l’altro Ladakh. La decisione faceva parte di un progetto politico più ampio del governo di Modi, che dalla sua prima elezione, nel 2014, aveva sempre mostrato di considerare il Kashmir un problema: nell’unico stato indiano a maggioranza musulmana e non induista, infatti, operavano da decenni gruppi separatisti appoggiati e finanziati dal Pakistan.
Quest’anno quindi diversi partiti favorevoli all’autonomia si sono candidati, con la promessa di far riottenere al Kashmir lo “status speciale” e nella speranza di erodere il consenso del BJP (conservatore, nazionalista e induista). Alle elezioni per eleggere la Lok Sabha, cioè il parlamento nazionale, il BJP aveva ottenuto in Kashmir poco più del 24 per cento dei voti.
Da qui all’8 ottobre i residenti del Kashmir eleggeranno 90 rappresentanti del parlamento locale: oggi, durante la prima giornata di elezioni, gli elettori di vari distretti voteranno per assegnare 24 seggi; il 25 settembre ne verranno assegnati 26; il 5 ottobre i restanti 40. Sulla base del risultato elettorale si formerà un governo locale, verrà nominato un governatore statale e il suo consiglio dei ministri. Per via del nuovo assetto amministrativo deciso nel 2019, il governo del Kashmir avrà solo alcuni limitati poteri sull’istruzione, sulla cultura e sulle tasse, mentre il controllo delle forze di polizia è passato nelle mani del governo centrale indiano. La polizia e il governo di Modi sono state accusate, soprattutto negli ultimi anni, di reprimere il movimento separatista del Kashmir con la violenza.
Per questa giornata di elezioni le autorità indiane hanno schierato nei distretti coinvolti migliaia di agenti per pattugliare i seggi. L’agenzia di stampa AP ha scritto che per la prima volta a molti giornalisti stranieri, tra cui i loro corrispondenti, è stato negato l’accredito stampa senza una motivazione esplicita.
I partiti principali che concorrono in queste elezioni sono il Partito democratico del popolo (PDP), dell’ex governatrice del Kashmir Mehbooba Mufti; la Conferenza nazionale (NC), guidata da Omar Abdullah (che ha fatto a sua volta il governatore del Kashmir, tra il 2009 e il 2015); il Congresso, cioè il principale partito di opposizione in India, e il Bharatiya Janata Party. A questi si aggiungono poi i partiti separatisti, il principale dei quali è il Jamaat-e-Islami.
Il BJP ha una buona base elettorale nell’area meridionale del Jammu, dove vive la maggior parte degli induisti del territorio, ma è invece molto debole a nord, nella valle del Kashmir, dove invece i residenti sono prevalentemente musulmani. A livello locale il BJP ha promesso di restituire al Kashmir la qualifica di stato, al pari degli altri stati indiani, ma non lo “status speciale” garantito dalla Costituzione del 1950. I partiti di opposizione invece si sono detti d’accordo con il ripristino dell’autonomia: dopo la revoca nel 2019 il PDP, la Conferenza nazionale e altri avevano formato un’alleanza il cui obiettivo principale era proprio il riottenimento dello “status speciale”, che aveva vacillato in qualche occasione ma in queste elezioni si è presentata unita sul tema.