I CPR costano molto e servono a poco

Il governo sta aumentando molto le spese per i centri che dovrebbero servire a rimpatriare i migranti irregolari, e per costruirne di nuovi: ma i rimpatri effettivi sono pochi e le violazioni dei diritti umani molte

Una foto dell'ingresso del CPR di Ponte Galeria
L'ingresso del CPR di Ponte Galeria (LaPresse)
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Nell’ultimo anno, due dei dieci Centri di permanenza per i rimpatri (spesso chiamati con la sigla CPR) per migranti irregolari, a Torino e a Trapani, sono stati chiusi dopo le proteste delle persone recluse contro le condizioni di detenzione. A Milano e a Palazzo San Gervasio, in Basilicata, ci sono state indagini giudiziarie per maltrattamenti alle persone detenute e per reati legati alla gestione dei centri, affidata a cooperative sociali o a società private.

Inoltre, le relazioni al parlamento del Garante nazionale dei detenuti e della Corte dei Conti hanno mostrato una grande sproporzione tra i costi molto alti sostenuti dal governo per mantenere le strutture e i risultati raggiunti. Nei CPR, infatti, ci finiscono le persone migranti a cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Italia, e a cui è stata respinta la richiesta di protezione internazionale. Da lì dovrebbero poi essere rimpatriate, tuttavia ciò avviene solo per meno della metà delle persone transitate per i CPR, anche perché applicare i decreti di espulsione è difficile: mancano gli accordi bilaterali con molti dei paesi verso cui dovrebbero tornare. Nonostante tutto questo, il governo di Giorgia Meloni ha deciso di potenziare i CPR già attivi e ha promesso di crearne di nuovi.

È in questo contesto che la mattina di lunedì 15 aprile scorso alcuni rappresentanti del Tavolo asilo e immigrazione, di cui fanno parte quaranta organizzazioni non governative, si sono presentati agli ingressi degli otto CPR attualmente attivi in Italia e hanno chiesto di entrare per verificare il rispetto dei diritti umani delle persone al loro interno. Tra loro c’erano avvocati, mediatori linguistici e medici, alcuni consiglieri regionali e parlamentari del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di +Europa, di Sinistra Italiana e dei Verdi. Nel CPR di Macomer, in Sardegna, la prefettura di Nuoro ha negato l’accesso. In quello di Gradisca d’Isonzo, in Friuli Venezia Giulia, in un primo momento avevano fatto entrare tutti, poi però avevano fatto uscire gli attivisti lasciando dentro solo i parlamentari. A Bari, Brindisi, Caltanissetta, Milano, Palazzo San Gervasio e Ponte Galeria, nella periferia sud-ovest di Roma, le visite si sono svolte regolarmente.

Due giorni dopo, in una conferenza stampa a Roma le persone che avevano partecipato alle ispezioni hanno confermato quello che già più volte è stato denunciato, cioè che nei CPR non sono rispettati i più elementari diritti umani, che le strutture non sono adeguate alla reclusione e che le gestioni private non riescono a garantire un’assistenza adeguata alle persone recluse. Hanno detto di aver trovato servizi igienici in cattive condizioni, che nelle strutture visitate non ci sono spazi comuni e che i detenuti sono costretti a mangiare nelle loro celle. Hanno denunciato anche che nelle strutture ci sono pochi mediatori culturali, che gli psicofarmaci vengono usati «in maniera massiccia» e che nelle schede conservate nelle infermerie è registrato un «impressionante numero di tentativi di suicidio», che i gestori avrebbero «derubricato come simulazioni».

Gli attivisti e i parlamentari sono riusciti anche a parlare con alcuni detenuti. «Da questi colloqui sono emerse le criticità maggiori: sensazione di spaesamento, estraniazione, non sanno cosa fanno lì e per quanto tempo, non sono stati informati dei diritti che hanno, vogliono parlare con un avvocato, hanno chiesto aiuto», hanno scritto in un rapporto finale consegnato ai giornalisti. In totale, il giorno della visita negli otto centri aperti c’erano 500 migranti reclusi, perlopiù nordafricani e in parte subsahariani.

I CPR furono creati nel 2017, con una legge degli allora ministri dell’Interno e della Giustizia Marco Minniti e Andrea Orlando, entrambi del Partito Democratico, durante il governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni. Sostituirono i Centri di identificazione ed espulsione (CIE) voluti nel 2009 dal governo di Silvio Berlusconi al posto dei vecchi Centri di permanenza temporanea (CPR), istituiti a loro volta dalla cosiddetta legge Turco-Napolitano sull’immigrazione del 1998.

– Leggi anche: Le fasi del percorso di accoglienza dei migranti, sulla carta

I CPR formalmente sono centri di detenzione amministrativa in cui vengono portati i migranti che hanno ricevuto un ordine di espulsione dal paese, che deve essere convalidato dal giudice di pace entro 96 ore. In teoria dovrebbero essere luoghi di passaggio: se l’ordine di espulsione viene convalidato i migranti possono essere “trattenuti”, come si dice in gergo burocratico, fino a un massimo di tre mesi. Questi però sono poi prorogabili per altri tre mesi, e a settembre del 2023 un decreto-legge ha previsto ulteriori proroghe fino a 18 mesi «se lo straniero non collabora al suo allontanamento o per i ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi terzi». Nella sostanza quindi le persone vengono facilmente detenute in un CPR anche per due anni.

Secondo la relazione al parlamento del 2023 del Garante nazionale dei detenuti, i migranti che finiscono nei CPR sono in costante aumento. Nel 2022, l’ultimo anno per cui ci sono dati disponibili, ci erano passate 6.383 persone, mille in più dell’anno precedente e duemila in più del 2020. Di queste però solo 3.154 nel 2022 vennero effettivamente rimpatriate, meno della metà. Secondo il Garante sono «numeri piccoli rispetto al clamore delle intenzioni annunciate»: fin dal suo insediamento infatti il governo di Giorgia Meloni ha detto di voler puntare molto sui CPR, potenziando quelli già esistenti e costruendone di nuovi.

L’articolo 1 della legge di bilancio del 2023, quella con cui il governo stabilisce come lo Stato italiano intende modificare la spesa pubblica nell’anno successivo, prevede che «al fine di assicurare la più efficace esecuzione dei decreti di espulsione dello straniero, il ministero dell’Interno è autorizzato ad ampliare la rete dei centri di permanenza per i rimpatri». Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi all’inizio di novembre aveva detto davanti al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen (il trattato che regola la libera circolazione nella maggior parte dei paesi europei) che l’obiettivo del governo è avere un CPR in ogni regione. Per questo aveva incrementato i fondi per il 2024 di 14,39 milioni di euro, per arrivare a un totale di circa 20 milioni di euro da spendere per i CPR. L’ampliamento era già previsto dalla legge Minniti-Orlando del 2017.

Una foto che mostra tre attivisti a una manifestazione per chiedere la chiusura di tutti i centri di detenzione temporanea per migranti, Milano, 6 aprile 2024

Tre attivisti a una manifestazione per chiedere la chiusura di tutti i centri di detenzione temporanea per migranti, Milano, 6 aprile 2024 (AP Photo/Luca Bruno)

Alla fine di ottobre il quotidiano Domani aveva pubblicato una lista inedita di luoghi indicati dalle prefetture e scelti dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e da quello della Difesa, Guido Crosetto, per costruire nove nuovi CPR. In base ai documenti visti da Domani queste nuove costruzioni dovrebbero rispettare le indicazioni della legge Minniti-Orlando, che privilegia «i siti e le aree esterne ai centri urbani che risultino più facilmente raggiungibili e nei quali siano presenti strutture di proprietà pubblica che possano essere, anche mediante interventi di adeguamento o ristrutturazione, resi idonei allo scopo».

Secondo Domani, i centri saranno costruiti dal Genio militare per una spesa di due milioni di euro ciascuno, come prevede un decreto-legge approvato a settembre del 2023, potranno ospitare da 120 a 300 persone e avranno una forma circolare, con moduli abitativi e prefabbricati. Nella lista ci sarebbero la frazione di San Giacomo nella periferia sud di Bolzano, Diano Castello in provincia di Imperia e l’ex caserma Piave di Albenga nel savonese, Aulla in provincia di Massa Carrara, l’ex aeroporto militare di Ferrara, Falconara Marittima, Catanzaro, Castel Volturno e l’ex Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Brindisi. Per la loro gestione i documenti visti da Domani prevedevano una spesa di un milione di euro all’anno.

Alla fine di marzo, il ministero della Difesa aveva detto al mensile Altreconomia che il piano non era ancora operativo, ma aveva confermato che fossero in corso «lavori preparatori». L’unico progetto previsto al momento è l’ampliamento del CPR di Contrada del Lago a Caltanissetta, in Sicilia. Il bando di gara prevede una spesa di 11,7 milioni di euro, una somma che da sola è più della metà dei 20 milioni stanziati per i nove nuovi CPR. A questi va aggiunto il Cpr da 144 posti in costruzione a Gjader, in Albania, dopo l’accordo firmato a novembre tra il governo italiano e quello albanese che prevede tre strutture per i migranti in Albania, tra cui un hotspot nel porto di Shenjin e un centro destinato «all’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale» sempre a Gjader, per un costo complessivo di 34 milioni di euro.

A questa cifra andranno poi aggiunti i costi di trasporto, le bollette dell’acqua e dell’elettricità, del servizio di raccolta rifiuti, la connessione Wi-Fi e la manutenzione ordinaria e straordinaria, le spese per «la predisposizione e manutenzione dei presidi antincendio» e quelle «relative all’assistenza sanitaria».

I costi sembrano sproporzionati rispetto ai risultati finora ottenuti. La Corte dei Conti ha rilevato che nel 2020 sono stati spesi 8,3 milioni di euro per rimandare 3.351 persone nel paese di provenienza: sono quasi 2.500 euro a testa. In più, i pochi rimpatri vengono effettuati solo nei paesi che il governo italiano considera «sicuri» con interpretazioni molto discutibili: tra questi c’è per esempio la Tunisia, che è guidata da un regime illiberale che da mesi porta avanti una campagna di discriminazione nei confronti delle persone che provengono dall’Africa subsahariana. Anche per aumentare le possibilità di effettuare i rimpatri, il governo italiano con un decreto del 7 maggio ha aumentato questi paesi da 16 a 22, includendo tra gli altri l’Egitto e il Bangladesh, da cui ogni anno arrivano in Italia migliaia di richiedenti asilo.

La Coalizione italiana libertà e diritti civili (CILD), una rete di organizzazioni che tutela e promuove le libertà civili garantite dalla Costituzione italiana e dal diritto internazionale, in un rapporto ha definito i CPR come dei «buchi neri», argomentando che già oggi costano più di 40mila euro al giorno «per meno di 400 persone quotidianamente presenti». Secondo la CILD, queste strutture sarebbero «remunerative solo per i privati che le gestiscono»: tra il 2018 e il 2021 lo Stato ha speso 44 milioni di euro per la gestione, affidata a cooperative sociali o a società private, «a cui vanno sommati i costi relativi alla manutenzione delle stesse e al personale di polizia».

Negli ultimi anni poi sono state presentate numerose denunce sulle violazioni dei diritti dei migranti all’interno dei centri, ci sono state proteste che hanno portato alla chiusura di due CPR e in alcuni casi i magistrati hanno indagato sulle aziende che li gestiscono. La sera del 4 febbraio del 2023 in tre aree del centro di corso Brunelleschi a Torino ci fu una rivolta delle persone migranti detenute, che protestavano contro le condizioni di detenzione. Era intervenuta la polizia in assetto antisommossa, aveva usato gas lacrimogeni e c’erano stati feriti, ma le proteste erano proseguite fino al giorno successivo e c’era stato anche un incendio.

Nei giorni seguenti il centro era stato dichiarato inagibile e da allora non ha più riaperto. Alla fine di gennaio del 2024 c’era stata un’analoga protesta nel CPR di Milo, alla periferia di Trapani. Le persone recluse avevano bruciato materassi, provocando molti danni alla struttura, che è stata chiusa. La sera del 10 febbraio del 2024 c’era stata un’altra protesta nel CPR di via Corelli a Milano. Nei giorni seguenti l’associazione Naga aveva raccolto le testimonianze e i video di alcuni migranti che denunciavano presunti pestaggi delle forze dell’ordine e aveva presentato un esposto alla procura della Repubblica di Milano.

Alla metà di dicembre il CPR di via Corelli era stato commissariato dal tribunale di Milano dopo che la procura della Repubblica aveva disposto il sequestro preventivo della società che lo gestiva, La Martinina: la società è sotto indagine perché non avrebbe mai fornito, o lo avrebbe fatto in maniera «largamente insufficiente», servizi previsti nel capitolato d’appalto come la mediazione linguistica e l’assistenza psicologica, legale e sanitaria. L’inchiesta ha mostrato come anche la gestione affidata a cooperative sociali e società private sia stata fin qui fallimentare: in parte dipende anche da come funzionano i bandi, che vengono assegnati alle aziende che dicono di poter offrire il servizio migliore al prezzo più basso, e quindi tendono a risparmiare.

L’11 aprile l’ex vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, ora deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della commissione Affari costituzionali della Camera, ha annunciato che il CPR di via Corelli chiuderà per un breve periodo per essere ristrutturato e per aumentarne la capienza.

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