Perché l’italiano dei vecchi programmi televisivi ci sembra strano

Cioè posticcio e molto impostato, anche nelle interviste delle persone comuni: ma nessuno parlava davvero così

Uno screenshot da un'intervista a Oriana Fallaci andata in onda nel 1961 (Armando Giordano)
Uno screenshot da un'intervista a Oriana Fallaci andata in onda nel 1961 (Armando Giordano)
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Sentendo parlare le persone all’interno di programmi televisivi e radiofonici, o in film degli anni Cinquanta o Sessanta, è facile notare una differenza rispetto al modo di parlare italiano a cui siamo abituati oggi. Non è solo una differenza di lessico – cioè di scelta delle parole – che naturalmente nel corso dei decenni è cambiato. C’è proprio una differenza nell’intonazione e nella cadenza, che forse non tutti sapremmo descrivere ma che è abbastanza evidente e riconoscibile da diventare oggetto di imitazioni e parodie.

È un modo di parlare che risulta un po’ posticcio alle nostre orecchie, oltre che affettato, e che oggi non si sente più da nessuna parte: né in televisione o alla radio, né in altri contesti più o meno istituzionali, men che meno parlato dalle persone che sono cresciute negli anni Cinquanta e Sessanta. C’è un motivo, che è legato alla storia della diffusione e dell’evoluzione dell’italiano e dei mezzi di comunicazione di massa: ciò che è certo comunque è che in quegli anni nessuno parlava davvero così.

«Gli spezzoni televisivi e radiofonici sono le tracce che abbiamo di come parlavamo negli anni Sessanta, ma la televisione è una cosa diversa dal parlato spontaneo», spiega Stefania Spina, che insegna linguistica all’Università per Stranieri di Perugia. «Tanto che se guardiamo invece i documentari, la cui volontà esplicita era di raccontare la realtà, notiamo la differenza tra lo speaker che parla così e le persone intervistate che parlano in dialetto».

una parodia del linguaggio delle interviste di quegli anni dell’attrice Beatrice Arnera

Fino alla fine degli anni Sessanta, infatti, l’italiano era una lingua molto scritta ma molto poco parlata: la percentuale di analfabeti nella popolazione era ancora molto alta e nel quotidiano si parlava dappertutto in dialetto. Allo stesso tempo però la radio, che arrivò nel 1924, e poi la televisione, nel 1954, erano emittenti di stato che oltre allo scopo di informare e intrattenere tutta la popolazione avevano anche una missione educativa. Nacque quindi in quegli anni l’esigenza di avere una lingua nazionale istituzionale.

«Non c’era un italiano orale standard parlato normalmente e bisognava trovarlo», spiega Marco Biffi, docente di Linguistica italiana all’Università degli Studi di Firenze. «Il fiorentino era il più vicino a questo modello ma aveva comunque dei tratti regionali, e per compensarli si ricorse alla pronuncia romana: ne venne fuori il cosiddetto fiorentino emendato», spiega Biffi, «ma è una pronuncia astratta che si impara con un corso di dizione».

Chi lavorava in radio e televisione faceva corsi di dizione per togliere le inflessioni regionali e adottare questa pronuncia standard, che fosse all’altezza delle emittenti nazionali. Alla fine degli anni Sessanta per i giornalisti della Rai divenne obbligatorio seguire la pronuncia indicata nel Dop. Dizionario d’ortografia e di pronunzia della lingua italiana. Oltre ai professionisti così formati, di persone comuni che intervenissero in televisione ce n’erano poche, e quelle poche venivano comunque selezionate in base alla loro capacità di avvicinarsi il più possibile a quell’italiano standard. Biffi spiega che se quel modo di parlare oggi ci sembra così artificioso «è proprio perché era una lingua parlata in modo non naturale, perché appresa dopo la lingua madre».

«Questa attenzione formale alla lingua si riverberava nell’intonazione», continua Biffi. «C’era questa idea dell’italiano come di un sistema intoccabile, e venendo dalla lingua letteraria c’era poca spontaneità e dimestichezza nell’usarlo», aggiunge Vera Gheno, sociolinguista e tra le altre cose autrice del podcast del Post Amare parole. Nelle parole di Spina, «era un modo di parlare finto, un modello a cui rifarsi anche per la pronuncia e il tono, molto sobrio e molto impostato». Era un italiano che comunque non esisteva al di fuori della tv, neanche nelle conversazioni colte.

Verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, con il boom economico e la diffusione della televisione in moltissime case e locali, le cose cambiarono. Da un lato diminuì l’analfabetismo e l’italiano parlato si diffuse molto di più. Dall’altro lato si affermarono le televisioni commerciali private, cioè quelle che diversamente dalla Rai si finanziavano con la pubblicità e non avevano un’impronta istituzionale ed educativa così forte: in televisione cominciarono a comparire anche persone comuni, con professioni diverse da quella del giornalista.

Negli anni Ottanta l’italiano era effettivamente la lingua di tutti, e divenne di conseguenza anche la lingua della televisione, che non aveva più motivo di rifarsi a un modello standard così lontano dal parlato. Inoltre le televisioni locali private cominciarono a diventare nazionali e questo abituò gli spettatori ad accenti regionali diversi dal proprio. «A quel punto le tv non insegnavano più l’italiano, ma riflettevano la lingua che si parlava», riassume Biffi.

Gheno fa notare che le cose si sono evolute in questa direzione sempre di più negli anni successivi: «oggi in televisione sentiamo persone che sbagliano la dizione, parlate locali, ma anche difetti di pronuncia, e non è considerata una cosa disdicevole». In anni più recenti ha contribuito ulteriormente una più generale tendenza a voler mostrare in televisione scene autentiche, più improvvisate e meno costruite, seguendo i gusti delle nuove generazioni di spettatori, e una generale minore attenzione per le formalità. In un recente articolo d’opinione, il giornalista Michele Serra criticava il parlato televisivo che si è affermato negli ultimi anni definendolo «italiesco: non più romanesco (o veneto, siciliano, ligure…) ma parecchio distante dall’italiano», inteso, nel suo caso, come l’italiano corretto per dizione e inflessione.