Come la Cina ha prima salvato e poi sfruttato Elon Musk

Quando Tesla stava per fallire il governo cinese accolse i suoi stabilimenti e gli offrì un nuovo grande mercato: ma a trarne i vantaggi maggiori fu l'industria locale delle auto elettriche

Automobili Tesla parcheggiate davanti alla sede del Partito Comunista cinese a Pechino nel 2018. (Mark Schiefelbein - Pool/Getty Images)
Automobili Tesla parcheggiate davanti alla sede del Partito Comunista cinese a Pechino nel 2018. (Mark Schiefelbein - Pool/Getty Images)
Caricamento player

Nell’agosto del 2018 Elon Musk diede un’intervista al New York Times sui molti problemi che interessavano Tesla, la sua azienda di auto elettriche, tra cui indagini e denunce relative alla sicurezza delle sue fabbriche e del sistema di guida assistita Autopilot, nonché ritardi produttivi. A conferma di quanto quel periodo fosse difficile, il New York Times scrisse che nel corso dell’intervista «Musk alternò risate e lacrime» (in seguito fu lo stesso Musk a precisare che «non ci furono lacrime»).

Nel pieno di questa crisi, durata dalla metà del 2017 alla metà del 2019, Tesla fu molto vicina al fallimento: secondo Musk arrivò circa «a un mese» dalla bancarotta prima di riprendersi e iniziare un periodo di grande crescita. L’azienda si salvò soprattutto grazie a una scommessa fatta da Musk, che decise di puntare sull’apertura di uno stabilimento produttivo (detto “gigafactory”), a Shanghai, in Cina, paese che rappresentava un enorme mercato potenziale e poteva offrire lavoratori specializzati e fornitori a buon mercato.

Musk riuscì a imporsi sulle autorità cinesi per ottenere un trattamento piuttosto preferenziale e una serie di incentivi per l’introduzione di Tesla in Cina. Tra tutti, convinse il governo cinese ad adottare una legge simile a quella in vigore da tempo in California, dove è attivo un programma che premia con dei crediti energetici le aziende che producono veicoli a emissioni zero. In questo modo, chi produce auto inquinanti deve acquistare i crediti dalle aziende più sostenibili, in un processo che incentiva la transizione elettrica e sostiene economicamente le aziende che producono veicoli meno inquinanti. Secondo alcune stime, il sistema dei crediti californiano ha fruttato a Tesla 3,7 miliardi di dollari a partire dal 2008. L’obiettivo di Musk era replicarlo nel mercato cinese.

Fu l’inizio di un periodo idilliaco per le relazioni tra Tesla (e Musk in particolare) e la Cina, un rapporto che secondo alcuni si è però incrinato e ha cominciato a ledere l’azienda statunitense proprio mentre il settore delle auto elettriche cinesi ha registrato una forte crescita. Prima di tutto questo, però, nel gennaio del 2020 Tesla aprì la gigafactory di Shanghai, che fu costruita in meno di un anno e cominciò a produrre veicoli per il mercato cinese, europeo e dell’Oceania.

La diffusione della pandemia non fermò lo stabilimento, che rimase chiuso per appena due settimane mentre la storica fabbrica Tesla di Fremont, in California, fu costretta a rispettare regole più stringenti. All’epoca Musk se ne lamentò molto su Twitter, dove iniziò a pubblicare contenuti sempre più scettici e controversi sul Covid e sulle politiche necessarie al suo contenimento. Secondo un lungo articolo del giornalista Ronan Farrow pubblicato dal New Yorker, peraltro, questa fase sarebbe l’inizio del processo di radicalizzazione politica che ha portato Musk a sostenere posizioni sempre più estreme negli ultimi anni.

– Leggi anche: Non esiste un’auto elettrica senza la Cina

Nel luglio del 2020, ospite di un podcast, Musk giudicò così la differenza tra Stati Uniti e Cina: «La Cina spacca. L’energia che c’è in Cina è ottima. Lì ci sono alcune delle persone più intelligenti e dei grandi lavoratori. Non sono pretenziosi e compiacenti come negli Stati Uniti».

Per alcuni anni il piano andò come auspicato da Musk: nell’ottobre del 2021, Tesla superò mille miliardi di dollari di valore in borsa grazie a un periodo di forte crescita che rese Musk l’uomo più ricco del mondo. Mentre l’azienda si espandeva in Cina, però, l’industria locale cominciava un periodo di profonda – ma veloce – trasformazione, che portò al successo odierno di marchi come BYD, il più noto produttore di veicoli elettrici cinese. Secondo una ricostruzione del New York Times, la calorosa accoglienza riservata a Tesla dal governo cinese e l’esplosione dei veicoli elettrici cinesi sarebbero però strettamente collegate.

La Cina ha trattato bene Tesla, garantendole i terreni per la fabbrica a prezzi bassi, prestiti e mutui vantaggiosi e i citati incentivi fiscali, oltre ad averle permesso di operare senza un partner industriale cinese, cosa mai avvenuta prima per un’azienda automobilistica straniera. Questi favori rientravano nella strategia cinese che mirava a generare quello che nel mondo degli affari viene detto “catfish effect” (o effetto pescegatto), dal nome di un pesce tanto aggressivo da spingere gli altri pesci a nuotare e muoversi più velocemente, quando viene inserito in un nuovo ambiente.

– Leggi anche: Da dove arriva BYD

In termini economici, questo fenomeno descrive l’aumento della competizione interna a un paese – o un settore – quando a intervenire è un agente del tutto estraneo e battagliero. È quello che sarebbe successo in Cina, come suggerisce il drastico calo di vendite registrato da Tesla nel primo trimestre del 2024 (-19% rispetto all’anno prima) e la crescita di aziende locali come Xiaomi o la citata BYD, che propongono modelli a prezzi più bassi (quest’ultima in particolare a fine 2023 ha strappato a Tesla il titolo di maggiore produttore di veicoli elettrici al mondo). La situazione del settore è cambiata in modo veloce e profondo: nel 2011, durante un’intervista, Musk si mise a ridere quando la giornalista indicò BYD come possibile competitor di Tesla. «Le hai viste le loro macchine?», rispose Musk sarcasticamente.

Musk non era l’unico ad avere scarse aspettative su BYD. Per molti anni, infatti, le auto elettriche dell’azienda furono «lo zimbello del settore», come ha detto al New York Times Michael Dunne, esperto del comparto automobilistico cinese. La crescita di BYD è stata resa possibile proprio dagli incentivi fiscali del governo cinese, che le permisero di occupare il 40% del mercato automobilistico del paese (secondo alcune stime entro la fine del 2024 potrebbe controllarne la metà).

Nel corso degli ultimi anni, sempre secondo il New York Times, la Cina avrebbe costruito abbastanza fabbriche di automobili da soddisfare il doppio della domanda interna. Ciò ha innescato una guerra commerciale che ha costretto Tesla ad abbassare molto il prezzo dei suoi modelli, riducendo i guadagni. La crescita inaspettata di BYD e di altre aziende cinesi ha spinto l’Unione europea ad avviare un’indagine “anti-dumping”, dove per dumping (dall’inglese “scaricare”) intende «una pratica per cui le grandi imprese introducono nel mercato europeo dei prodotti a un prezzo molto inferiore rispetto a quello di mercato». Lo stesso Musk, a inizio anno, ha commentato la crescita di BYD e altri marchi cinesi sostenendo che senza una politica di tariffe doganali questi «distruggeranno gran parte delle aziende mondiali».

Lo stabilimento di Tesla a Shanghai ha anche generato un giro d’affari per le molte aziende cinesi che vi collaborano, la cosiddetta filiera produttiva dell’industria automobilistica, che riguarda in particolare LK Group. L’azienda è stata cruciale soprattutto nello sviluppo del «gigacasting», un metodo innovativo di produrre grandi parti strutturali delle automobili attraverso la pressofusione dell’alluminio (una tecnica con cui il metallo fuso viene iniettato in uno stampo metallico). In questo modo, invece di diverse parti di diverse dimensioni tenute insieme da saldature, rivetti e colle, si ottiene un unico pezzo. E si riducono tempi e costi. Per riuscirci Tesla aveva commissionato a LK Group una «gigapress», la più grande macchina per la pressofusione al mondo, che fu presentata entusiasticamente dallo stesso Musk.

Il fondatore di LK Group, Liu Siong Song, ha raccontato al New York Times di aver sviluppato la tecnologia lavorando con Tesla per circa un anno. A partire dal 2022, però, la sua azienda ha venduto gigapress ad altri sei produttori d’auto cinesi. Un tale cambiamento di metodi di produzione ha fatto in modo che Tesla facesse ai produttori d’automobili cinesi quello che Apple ha fatto all’industria dei dispositivi elettronici locali, soprattutto la filiera di iPhone, che aveva contribuito alla nascita di molte aziende locali che hanno poi lavorato anche con marchi come Huawei e Xiaomi.

La ricostruzione del New York Times sul presunto “effetto pescegatto” generato dalla strategia cinese non ha convinto proprio tutti. Kevin Xu, investitore e autore di Interconnected, una newsletter dedicata alla tecnologia e in particolare alle relazioni tra Cina e Stati Uniti, ha sottolineato quanto il successo di Tesla abbia leso per molti anni aziende come BYD. Il piano della Cina – se di piano si trattava – sarebbe stato quindi molto rischioso: «Quando le macchine elettriche di Tesla hanno cominciato a uscire dalla gigafactory di Shanghai (…), gli introiti di BYD si sono dimezzati, le vendite sono calate del 20% rispetto all’anno prima e l’azienda è quasi morta», ha scritto Xu. BYD fu costretta quindi a investire su nuovi design e batterie più resistenti e affidabili, rendendosi quindi più appetibile per il pubblico. La dinamica con cui ha sorpassato Tesla, insomma, sarebbe stata diversa da quella teorizzata dall’effetto “pescegatto”, e più legata a una reazione dell’azienda alla crisi seguita all’arrivo di Tesla.

L’ingresso di Tesla nel mercato cinese ha comunque avuto un impatto notevole e aiutato aziende anche al di fuori dalla tradizionale filiera del comparto automobilistico. Tra tutte, quelle delle batterie, elemento fondamentale per un veicolo elettrico: negli Stati Uniti, Tesla ha un accordo storico con Panasonic ma in Cina usa perlopiù batterie prodotte da un’azienda fino a poco tempo fa quasi sconosciuta, CATL, che ha costruito uno stabilimento vicino a quello di Tesla e oggi è il più grande produttore di batterie del mondo.

– Leggi anche: Elon Musk e l’uso di sostanze stupefacenti

Nel frattempo la situazione attorno a Tesla continua a cambiare. Questa settimana l’azienda ha tagliato circa il 10% della sua forza lavoro (14mila persone in tutto il mondo) e due importanti dirigenti se ne sono andati, ma ha anche annunciato alcune novità. A inizio aprile Bloomberg ha scritto che Tesla si stava preparando ad abbandonare il progetto del cosiddetto Model 2, un modello elettrico con un prezzo di 25mila dollari, una notizia subito smentita da Musk, che ha accusato Bloomberg di mentire.

La notizia sul Model 2 sembra però essere fondata e ha fatto piuttosto scalpore perché andrebbe a minare una delle promesse originali fatte da Tesla. Nel 2006, infatti, l’azienda pubblicò sul suo sito un «piano generale» per il futuro, che può essere riassunto così: cominciare da macchine costose ed elitarie (il Roadster) per finanziare veicoli sempre più alla portata di tutti, fino a produrre una «familiare a basso costo», il Model 2. Anche Martin Eberhard, che fondò Tesla nel 2003 insieme a Marc Tarpenning, ha criticato la decisione definendola un peccato e un’ulteriore occasione per le aziende cinesi. Nonostante la smentita a Bloomberg, il progetto Model 2 risulta essere stato accantonato – se non proprio abbandonato – perché Musk vuole puntare sui «robotaxi», veicoli in grado di guidarsi da soli che nel 2019 aveva promesso sarebbero stati disponibili «entro un anno».