Quanto sono vecchi gli edifici in Italia

Più della media europea ma in linea con Francia e Germania: adeguarli alla nuova direttiva europea sulle “case green” richiederà con ogni probabilità un sacco di soldi

Un condominio nel quartiere popolare di Tor Bella Monaca, a Roma ( AP Photo/Alessandra Tarantino)
Un condominio nel quartiere popolare di Tor Bella Monaca, a Roma ( AP Photo/Alessandra Tarantino)

Venerdì è stata approvata definitivamente la direttiva europea che stabilisce, tra le altre cose, nuovi parametri sull’efficienza energetica degli edifici residenziali, quella che nel dibattito italiano è stata chiamata “direttiva sulle case green”. Oltre a puntare alla realizzazione di immobili nuovi che non producano emissioni entro il 2050, ha l’obiettivo di ridurre il consumo energetico e il conseguente impatto ambientale anche di case e palazzi esistenti entro il 2035, con interventi di ristrutturazione per un miglior isolamento termico degli edifici o per dotarli di impianti energetici più moderni.

L’Italia ha votato contro, insieme all’Ungheria. Il motivo è principalmente economico e lo ha riassunto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in alcune dichiarazioni alla stampa in cui definiva la direttiva «bellissima» e «ambiziosa», per poi chiedersi: «Chi paga? Le famiglie? Gli Stati? L’Europa?». L’esatta entità dei costi che comporterà applicare la direttiva è difficile da stabilire, ma a prescindere da chi li sosterrà saranno con ogni probabilità alti, soprattutto perché il patrimonio immobiliare italiano è fatto per lo più di edifici vecchi con un alto consumo energetico.

Secondo dati Eurostat raccolti e rielaborati dal Sole 24 Ore nel 2021, in Italia quasi il 54 per cento degli edifici a uso residenziale è stato costruito prima del 1970, contro una media europea del 44,8 per cento. Non è comunque il paese europeo in cui gli edifici sono più vecchi: ce ne sono di più in Svezia, Danimarca e Belgio, dove sono rispettivamente il 64,4 per cento, il 62,4 e il 61,3. Ed è praticamente allo stesso livello di Germania e Francia, dove sono rispettivamente il 53,6 per cento e il 52,7 per cento.

(Mappa interattiva a cura di Info Data del Sole 24 Ore)

Un patrimonio immobiliare generalmente vecchio comporta diffuse inefficienze a livello energetico. Quella più eclatante è la scarsa capacità delle mura di isolare dall’esterno, in modo da tenere la temperatura più possibile costante: edifici poco isolati avranno bisogno di molta energia per essere scaldati in inverno e raffreddati in estate. Per questo tra gli interventi tipici per ridurre il consumo energetico degli edifici esistenti c’è per esempio il cosiddetto “cappotto termico”, un rivestimento aggiuntivo per ridurre lo scambio di calore con l’esterno. L’Italia è tra i primi dieci paesi dell’Unione Europea per emissioni inquinanti per abitante, legate al riscaldamento e raffreddamento delle case.

Saranno dunque necessari investimenti cospicui per rispettare gli obiettivi fissati dalla nuova direttiva europea, la quale prevede non solo che ogni Stato membro dell’Unione Europea dovrà impegnarsi a ridurre nel complesso il consumo medio di energia del 16 per cento entro il 2030, e di almeno il 20 per cento entro il 2035, ma che questo derivi in buona parte dall’efficientamento degli edifici esistenti. Il risparmio energetico dovrà infatti essere assicurato per almeno il 55 per cento dalla diminuzione del consumo medio di energia di almeno il 43 per cento delle case con le prestazioni energetiche peggiori, tra le quali vanno considerate anche quelle danneggiate da terremoti o altre calamità naturali. A questi edifici andranno quindi dedicati gli interventi di ristrutturazione più rilevanti.

Quanto è inquinante un edificio lo si capisce dalla sua classe energetica, definita in base a una classifica che va dalle case più efficienti (classe A, con un consumo di non oltre i 30 kilowattora annui per metro quadrato) a quelle meno efficienti (classe G, oltre i 160 kilowattora annui per metro quadrato): generalmente la classe D è ritenuta almeno sufficiente per gli standard moderni. La classe energetica viene assegnata con l’attestato di prestazione energetica, il cosiddetto APE, che però non hanno tutti gli edifici perché serve solo in caso di vendita o affitto dell’immobile, o in caso in cui si richiedano bonus edilizi per le ristrutturazioni previste dalla legge.

Non esistono dunque dati aggiornati e completi sulla classe energetica di tutti gli edifici esistenti in Italia, ma quelli in circolazione sono comunque ritenuti abbastanza rappresentativi degli oltre 12 milioni di edifici su tutto il territorio. Secondo i dati ENEA (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie e l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) su 4,9 milioni di attestati energetici relativi a immobili residenziali, 3,4 milioni certificano immobili nelle classi energetiche più basse e inferiori alla D, ossia la E, la F e la G, quelle su cui si dovranno concentrare gli interventi di efficientamento energetico: sono quasi il 70 per cento degli edifici con un’APE.

La maggior parte di questi edifici rientra tra quelli più vecchi, costruiti con tecniche ormai superate che rendono gli immobili poco efficienti dal punto di vista energetico.

Ci sono varie previsioni su quanto effettivamente costerà mettere in regola tutti gli edifici necessari, ma sono ancora approssimative e talvolta discordano le une con le altre. Secondo una stima dell’Associazione nazionale dei costruttori edili, l’ANCE, che è anche una delle più rappresentative e influenti del settore, per rispettare i nuovi requisiti europei entro il 2033 saranno necessari interventi su circa 2 milioni di edifici, per un costo complessivo tra i 40 e i 60 miliardi di euro all’anno.

Sono cifre abbastanza plausibili ed è probabile che infine per l’Italia si tratterà di una spesa complessiva di alcune centinaia di miliardi. È altrettanto verosimile aspettarsi che una parte dei fondi europei sarà dedicata proprio a finanziare parte di questi interventi.

Per l’Italia la direttiva europea arriva in un momento in cui il governo si lamenta delle agevolazioni fiscali per l’edilizia con straordinaria frequenza, reputandole troppo costose per gli effetti marginali che poi hanno avuto sull’ambiente e sul patrimonio immobiliare del paese. Il totale della spesa connessa a queste agevolazioni fiscali per la ristrutturazione degli immobili privati, dal 15 ottobre 2020 al 4 aprile 2024, è di circa 219 miliardi, di cui 160,3 miliardi per il Superbonus, e 58,7 miliardi per tutti gli altri bonus. E nonostante le cifre siano ingentissime, il Superbonus ha permesso l’efficientamento energetico di soli 494 mila edifici, un quarto dei 2 milioni stimati dall’ANCE che avrebbero bisogno di nuovi interventi per rispettare le regole europee.

Uno degli edifici di quelle che erano le Vele di Scampia, a Napoli, e che ora non esistono più (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Il rapporto 2023 di ENEA comunque riconosce come negli ultimi anni ci siano stati miglioramenti nell’efficienza energetica degli edifici, anche conseguenti ai bonus edilizi. Nel 2022 la quota di immobili classificati nelle categorie energetiche meno efficienti, F e G, si è ridotta di quasi 3,7 punti percentuali, e allo stesso tempo è aumentato quella appartenente alle categorie migliori, A e B, grazie alle nuove costruzioni.

Per questo gli esperti non sono del tutto riluttanti all’idea di nuovi bonus, a patto però che siano meno generosi del Superbonus e più selettivi: per esempio si potrebbero destinare solo a chi deve ristrutturare edifici delle classi energetiche più basse e a chi ha minor reddito. I bonus potrebbero anche tenere conto del miglioramento dell’efficienza energetica che gli interventi assicurano, premiando di più quelli con un rapporto tra costo e risparmio energetico più basso. Per esempio, secondo alcuni dati ENEA citati dal Corriere della Sera, il cappotto termico corrisponde a un costo annuo di 5,47 euro per ogni kilowattora risparmiato, mentre la sostituzione degli infissi ha un costo finale di 10,98 euro per ogni kilowattora risparmiato, il doppio.

– Leggi anche: Non sappiamo ancora quanto finirà per costare il Superbonus