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  • Martedì 26 marzo 2024

Una storia di isole e di prigioni

È il nuovo libro di Daria Bignardi, che parte da due rivolte in carcere durante la pandemia e si sposta per l'Italia tra isolamenti naturali e forzati

Dettaglio dell'illustrazione di copertina del nuovo libro di Daria Bignardi
Dettaglio dell'illustrazione di copertina di "Ogni prigione è un'isola" di Daria Bignardi

Il nuovo libro di Daria Bignardi – scrittrice e giornalista – si chiama Ogni prigione è un’isola, e parla in effetti di prigioni, di isole, e delle loro similitudini e sovrapposizioni: sia nelle vite di alcuni protagonisti delle storie che in quella dell’autrice e narratrice, che sposta le sue riflessioni e la stessa scrittura del libro da un luogo all’altro e tra isole e prigioni. Non è un romanzo e non è un saggio, e sfugge letteralmente a queste categorie: è una storia, vera, di molti personaggi che hanno frequentato le carceri italiane, e dell’esperienza dell’autrice con le carceri, con certe isole, e con il raccontare queste storie. Una storia che comincia da una rivolta nel carcere di San Vittore a Milano nelle prime settimane della pandemia e prosegue con quella assai più tragica nel carcere di Modena, poco dopo, prima di svilupparsi altrove e arrivare a un certo punto a una telefonata con il fratello di una delle persone morte a Modena.

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L’estate sta per finire quando riesco finalmente a fissare un appuntamento telefonico col fratello di Hafedh Chouchane, il primo dei nove morti di Modena.
La sua morte è stata refertata alle 20.20 dell’8 marzo 2020: “Verosimilmente, arresto respiratorio per abuso di sostanze oppioidi”.
Il medico del 118 si ricorda bene di lui, perché è stato il primo morto di quella sera: “Era nudo, senza calzini, in mutande”. Ma quando il suo corpo è arrivato all’istituto di Medicina legale di Modena aveva le tasche piene di Xanax, Trittico, Trazodone Cloridrato e Quetiapina. La Procura di Modena ha scritto poi che gli psicofarmaci che aveva addosso erano la prova che Hafedh Chouchane avesse assaltato la farmacia del carcere.
Un compagno ha raccontato che dopo la rivolta “era pieno di assistenti tutti incappucciati, erano da tutte e due le parti e tu dovevi entrare nel mezzo … poi spogliarti nudo praticamente per farti controllare … Poi da lì non ho capito più niente. Non ho capito come hanno fatto loro ad essere così crudeli”.
Il giorno dell’appuntamento con Ahmed Chouchane il vento di maestrale ha spazzato via l’afa. Manca poco al mio rientro a Milano ed è una giornata spettacolare: trasparente, limpida, una delle più belle dell’estate.
Dalla finestra della cucina vedo una fuga di nuvole bianche sopra il cielo azzurrissimo, già settembrino.

Ahmed Chouchane fa il pescatore e – “fatalità”, direbbe mio padre – vive a Madhia, un porto tunisino a sole novanta miglia da qui. Non è stato semplice rintracciarlo, perché lavora su un grosso peschereccio che sta in mare molti giorni senza mai rientrare.
Sa l’italiano ed è disponibile a parlare di suo fratello.
Studio la foto del profilo di WhatsApp per trovare qualche spunto, ma è un primissimo piano preso da un selfie – la persona accanto a lui è stata tagliata – del viso di un trentenne dai tratti arabi: si intravede il collo di una tuta nera a righe rosse e azzurre. Ha lo sguardo serio e l’eyebrow slit, un sopracciglio tagliato.
Chiamo alle tre in punto e risponde al primo squillo. Il suo italiano è ottimo, e la voce è più matura di come mi aspettavo dalla foto. Gli chiedo l’età e dice di avere quarantadue anni, due più di quanti ne avrebbe oggi Hafedh. Sotto la sua voce profonda si sente quella di un bimbo che lo chiama papà.

Spiega che parla così bene l’italiano perché ha lavorato quindici anni a Pozzallo, il porto più grande del consorzio comunale di Ragusa, e che il fratello minore lo aveva raggiunto in Italia con un contratto per fare il cameriere al Nord; ma quando è morto non lo vedeva da tre anni, perché lui aveva trovato lavoro su un peschereccio in Tunisia ed era tornato a casa.
Però da quando Hafedh era stato arrestato «per colpa di un amico che aveva detto alla polizia che la droga che avevano trovato era sua», se non era in mare si sentivano al telefono una volta alla settimana per quindici minuti, «e se non c’ero io lo sentiva la mamma».
«Penso continuamente a cosa mi ha detto un mese prima di morire: che nel carcere di Modena si stava così male che aveva un brutto presentimento. Ha detto proprio così: “Mi sento che devo morire”. E piangeva. Lo faceva solo con me, di piangere. Con la mamma mai, per non farla preoccupare. Con lei parlava del lavoro che gli aveva trovato il suo avvocato e che avrebbe fatto quando usciva. Invece l’ultima volta che ci siamo parlati, pochi giorni prima dell’incendio» (Ahmed la rivolta in carcere dell’8 marzo 2020 la chiama così: l’incendio), «era contento perché dopo due settimane finalmente usciva. Credi che uno che sta per uscire di prigione si uccide con le pastiglie? Sai che il medico che ha scritto il referto ha detto che era nudo, e poi invece l’hanno trovato vestito con i pantaloni e una felpa e le tasche piene di medicine? Tutte bugie! Come fa un morto a rivestirsi? E non ci hanno neanche chiamato loro per dirci che era morto, l’abbiamo saputo tre giorni dopo, dall’avvocato. Eppure il numero ce l’avevano: Hafedh ci chiamava ogni settimana.»

Ahmed ha un tono sconsolato più che arrabbiato. Quasi come se non ci credesse ancora, anche se sono passati tre anni e mezzo.
Mi racconta che ieri sera, appena rientrato a Madhia, è andato a trovare suo fratello al cimitero: «I nostri cimiteri sono diversi dai vostri, non hanno muri attorno, sono all’aperto, e le tombe stanno solo a terra e sono tutte bianche. Per fortuna quei ragazzi del centro sociale di Modena hanno pagato per rimandarlo qui. Almeno possiamo andarlo a trovare».
Gli chiedo com’era Hafedh.
«Eh, com’era Hafedh… era mio fratello! Chiedi al suo avvocato perché si era affezionato a lui: scherzava sempre, rideva sempre. Noi vogliamo solo la verità. Io, quando mi hanno detto che era morto, non ci credevo. Sono stato in Italia tanti anni, mai pensavo che in Italia succedevano cose così. Con me, quando mi chiedevano i documenti, i carabinieri di Pozzallo erano sempre gentili.»

Ahmed è così triste che per distrarlo gli racconto quanto siamo vicini, che lo sto chiamando da Linosa e che qui ho degli amici pescatori come lui.
Si anima subito: «Anche noi veniamo a pescare da quelle parti. I tuoi amici cosa pescano?».
«Ricciole, lampughe, totani, quel che c’è. Mi dicono che aragoste e cernie quest’anno non ne trovano.»
«Noi peschiamo solo gamberi rossi, eh!» risponde, come per discolparsi per la carenza di cernie e aragoste.
Ora che sembra rasserenato, gli chiedo perché ha messo nel suo profilo una foto in cui era tanto più giovane.
«Ma quello non sono io!» risponde. «Ho messo la foto di Hafedh!»
Ci salutiamo col magone.
Dopo poco su WhatsApp compare un suo messaggio con la foto di Hafedh ragazzino in maglietta a fiori su una banchina assolata, mentre con due mani solleva un grosso pesce spada.
Vedo che mi sta scrivendo, sembra un lungo messaggio, aspetto. Invece dice solo: “Era più di un fratello”.

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