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  • Sabato 16 marzo 2024

Le prime elezioni vinte da Vladimir Putin

Furono le presidenziali del 2000, che vinse grazie all'aiuto dell'ex presidente Eltsin e degli oligarchi: da allora non ha più lasciato il potere

Il patriarca ortodosso Alexi II, con il neoeletto presidente Vladimir Putin e l'ex presidente Boris Eltsin nel 2000 (Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP, File)
Il patriarca ortodosso Alexi II, con il neoeletto presidente Vladimir Putin e l'ex presidente Boris Eltsin nel 2000 (Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP, File)
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Vladimir Putin parteciperà fra venerdì e domenica alle elezioni presidenziali russe per la quinta volta: le ha vinte tutte, ma nessuna si è svolta in modo totalmente democratico. Quella in programma nel fine settimana non sarà una vera competizione elettorale, perché il regime di Putin in un quarto di secolo ha cancellato ogni possibile dissenso e ogni reale opposizione. Ma anche le elezioni del 2000, in cui fu eletto per la prima volta presidente, furono ampiamente condizionate dallo stato russo. Putin fu nominato primo ministro dal presidente Boris Eltsin nel 1999, quando era uno sconosciuto, dopo le dimissioni di Eltsin partecipò a quelle elezioni da presidente ad interim e poté sfruttare notevoli vantaggi.

Le elezioni del 2000 posero le basi per il dominio di Vladimir Putin sulla politica russa, che dura fino a oggi. La sua ascesa fu straordinariamente veloce, ed ebbe alcuni aspetti mai davvero chiariti: quando vinse le prime elezioni Putin era di fatto uno sconosciuto, anche per gli stessi russi, e i diplomatici statunitensi lo definivano «un enigma». Anche molti media internazionali si interrogarono sulla solidità del suo consenso e quindi della sua leadership.

Soltanto quattro anni prima di quelle elezioni, nel 1996, Putin era un ex dipendente del KGB (i servizi segreti sovietici) e un assistente del sindaco uscente di San Pietroburgo, Anatoly Sobchak. Quando Sobchak perse le elezioni per il secondo mandato, Putin si trasferì a Mosca ed entrò immediatamente nel governo nazionale: nel 1996 fu nominato vice capo del dipartimento per la Gestione delle proprietà presidenziali, cioè il dipartimento che gestiva le proprietà dello stato in Russia e all’estero; nel 1997 entrò nello staff del presidente Eltsin e nel 1998 fu nominato capo dell’FSB, i servizi segreti eredi del KGB.

Vladimir Putin e Boris Eltsin nel 2000 (AP Photo/Alexander Zenlianichenko, file)

Gli anni Novanta furono un periodo tumultuoso in Russia: in quel decennio nacque la classe dei cosiddetti oligarchi, cioè imprenditori che, approfittando della crisi economica, della corruzione e della completa dismissione dello stato, accumularono enormi ricchezze e ampio potere politico. Quando Putin arrivò a Mosca, il presidente Eltsin era al secondo mandato e stava cercando un sostituto che potesse garantire gli interessi economici e lo status della sua influente famiglia (che in Russia era nota al tempo come “la Famiglia”), peraltro al centro in quegli anni di varie inchieste giudiziarie per presunta corruzione.

A un certo punto tra il 1997 e il 1998 gli oligarchi e la Famiglia si convinsero che Putin, un burocrate umile e apparentemente malleabile, sarebbe stato la persona adatta per sostituire Eltsin. Nell’agosto del 1999 Eltsin nominò Putin primo ministro e disse che lo considerava il suo successore designato. Le elezioni presidenziali sarebbero state entro un anno, a luglio del 2000, e Putin entrò immediatamente in campagna elettorale, potendo disporre del pieno sostegno degli oligarchi (che controllavano tutti i media) e dell’apparato statale.

Subito dopo questo annuncio, la Russia fu colpita da una serie di attentati: a Mosca e in altre città, tra la fine di agosto e settembre del 1999, furono messe potenti bombe nelle cantine di condomini residenziali, che uccisero centinaia di persone e terrorizzarono la popolazione. Le autorità incolparono immediatamente i guerriglieri separatisti ceceni, e Putin approfittò dell’occasione per dichiarare la Seconda guerra cecena, che condusse con estrema brutalità (dopo che la prima era stata persa da Eltsin). Gli attentati negli anni generarono enormi sospetti: in Russia la responsabilità dei terroristi ceceni non è mai stata messa in discussione, ma all’estero alcuni analisti ritengono credibile l’ipotesi che a piazzare le bombe non fossero stati terroristi ceceni ma agenti dell’FSB, con l’intento di far cominciare una nuova guerra. Questa teoria tuttavia non è mai stata provata in maniera ufficiale.

Vladimir Putin dà una medaglia a un poliziotto in Daghestan, nel 1999 (AP Photo, File)

La gestione di questa crisi da parte del governo di Putin, che si mostrò deciso e rassicurante, accrebbe enormemente la sua popolarità, che dopo la guerra in Cecenia arrivò a sfiorare l’80 per cento. Per sfruttarne totalmente l’effetto, per ridurre i tempi della campagna elettorale e per evitare che nascesse un’opposizione più strutturata e popolare Eltsin e Putin attuarono un’ultima mossa. Il 31 dicembre del 1999, nell’annuale discorso di fine anno, il presidente Eltsin annunciò a sorpresa le dimissioni immediate, anche se il suo mandato sarebbe dovuto durare fino alla primavera. In questo modo Putin ottenne due vantaggi: poiché era primo ministro fu nominato presidente ad interim, cosa che gli diede enormi possibilità di manovra in campagna elettorale; inoltre le elezioni furono anticipate di quattro mesi, da luglio a marzo, riducendo il tempo per eventuali sfidanti di organizzarsi.

Fu approvata anche una nuova legge elettorale: da allora servirono 500mila firme per candidarsi alla presidenza e vennero aumentate le regole per finanziare le campagne elettorali. Il presidente sarebbe stato eletto al primo turno se avesse ottenuto più del 50 per cento dei voti, altrimenti era previsto un ballottaggio.

Putin arrivò a quelle elezioni da chiaro favorito, con l’obiettivo di vincerle al primo turno. Nei mesi precedenti con il sostegno di Eltsin e degli oligarchi era riuscito a neutralizzare i due politici più popolari di quegli anni, il sindaco di Mosca Yuri Luzhkov e l’ex primo ministro Yevgeny Primakov. Soprattutto contro quest’ultimo, che nel 1998 era stato rimosso da Eltsin, fu organizzata un’enorme campagna di stampa denigratoria: i media legati al governo lo accusarono di essere subordinato ai voleri della NATO, un simpatizzante della causa cecena e segretamente un comunista. A pochi mesi dalle elezioni, sia Luzhkov sia Primakov rinunciarono alla candidatura alla presidenza, e appoggiarono Putin.

Gli altri candidati alla presidenza erano dieci, di cui solo due con qualche speranza di prendere una quota di voti consistente. Il Partito Comunista fu in quegli anni sempre la principale forza di opposizione: candidava Gennady Zyuganov, ancora oggi leader dei Comunisti. Era stato uno dei principali critici delle politiche di apertura democratica di Michail Gorbaciov, aveva già nel 2000 una immagine piuttosto nostalgica, che difficilmente avrebbe attirato voti oltre alla base fedele al partito.

Grigory Yavlinsky era invece il candidato del partito liberale Yabloko (quello con cui avrebbe cominciato la sua carriera politica anche Alexei Navalny): investì parecchie risorse in spot e propaganda, ma non ebbe mai spazio sulle televisioni filogovernative e non sembrò mai avere una reale possibilità, soprattutto con una campagna elettorale accorciata di alcuni mesi.

Putin di fatto si rifiutò di fare campagna elettorale: non fece comizi, non incontrò gli elettori e non partecipò ai dibattiti con gli altri candidati. Si limitò a una lunga intervista per la tivù di stato, in cui raccontò la sua vita, e una serie di interviste nella televisione di proprietà dell’oligarca Boris Berezovsky, ORT (oggi Canale uno, il più importante in Russia). Berezovsky per anni sostenne di essere stato lui a favorire l’ascesa di Putin, prima di diventare un suo tenace oppositore, fino alla morte nel 2013.

Boris Berezovsky, in alto al centro, durante una seduta del parlamento russo nel 2000 (AP Photo, File)

Il programma elettorale di Putin era piuttosto vago, riassunto in una “Lettera aperta agli elettori russi” fatta pubblicare sui giornali il 25 febbraio. A marzo aveva già perso parte della grande popolarità guadagnata mesi prima: i sondaggi gli attribuivano il 57 per cento dei voti.

Le elezioni si tennero il 26 marzo, Putin prese circa il 53 per cento dei voti, il comunista Zyuganov andò oltre le previsioni arrivando al 29,5, il liberale Yavlinsky restò sotto il 6 per cento. Putin vinse al primo turno, ma con un risultato considerato un po’ sotto le attese: subito dopo le elezioni molti osservatori internazionali lo descrivevano come un leader potenzialmente debole e ostaggio di chi lo aveva aiutato a salire al potere, in particolar modo gli oligarchi. Già durante il primo mandato, però, avrebbe agito per ribaltare quei rapporti di forza: il processo contro l’oligarca Mikhail Khodorkovsky, che in quel momento era la persona più ricca di tutta la Russia, fu un messaggio per tutti gli altri, che si allinearono nell’appoggio al nuovo presidente.

Nelle elezioni seguenti, del 2004, Putin vinse con oltre il 70 per cento dei voti, grazie anche un controllo ormai totale dei media. Yavlinsky, leader di Yabloko, invitò al boicottaggio delle elezioni, definendole «un altro passo nello scivolamento del paese verso l’autoritarismo».

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