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  • Martedì 27 febbraio 2024

Negli Stati Uniti c’è un mondo a sinistra dei Democratici

Da tempo una serie di candidati, partiti e movimenti si muove “a sinistra della sinistra”, mettendo in discussione molte posizioni del partito

Il candidato indipendente Bernie Sanders (Drew Angerer/Getty Images)
Il candidato indipendente Bernie Sanders (Drew Angerer/Getty Images)
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Il 17 settembre del 2011 centinaia di persone occuparono Zuccotti Park, nel centro del distretto finanziario di Manhattan, a New York. Portarono con sé tende, sacchi a pelo, fornelletti da campeggio e cartelli con gli slogan «Questo è l’inizio dell’inizio» e «Siamo il 99 per cento!». Grazie ai nuovi servizi di streaming fecero ore di dirette sui social e riempirono i loro blog con indicazioni e proposte politiche: criticavano il sistema capitalista, considerato sbagliato e discriminatorio, ma 59 giorni dopo gli attivisti del movimento Occupy Wall Street furono sgomberati con la forza dalla polizia. La protesta era finita, ma delle ragioni che la causarono si parla ancora oggi.

Dopo secoli di trasformazioni, da qualche decennio il partito Democratico ha creato una sua identità ben precisa basata su posizioni progressiste, tanto che spesso si tende a identificarlo genericamente con la “sinistra” statunitense. Questa semplificazione tende però a far convergere su un’unica forza politica una moltitudine di idee anche molto diverse tra loro, e a volte contrastanti: da tempo negli Stati Uniti esiste un universo di movimenti e di partiti che si muove “a sinistra della sinistra”, rivendicando posizioni diverse e in alcuni casi radicali.

Queste possono essere sostenute da membri del partito Democratico che dissentono su alcuni punti dalla linea generale del partito, da esponenti indipendenti o di altri partiti di sinistra, oppure da movimenti spontanei e apartitici. Da Bernie Sanders ad Alexandria Ocasio-Cortez, passando per Jill Stein e il movimento Black Lives Matter: a sinistra dei Democratici ci sono molte realtà, anche con un consistente seguito. 

Gli attivisti del movimento Occupy Wall Street occupano Zuccotti Park, nel novembre del 2011 (AP Photo/Henny Ray Abrams)

Proprio Occupy Wall Street è fondamentale per capire le tendenze progressiste che si sono sviluppate negli Stati Uniti negli ultimi vent’anni. La storia del movimento è legata al contesto sociale ed economico di allora: era il 2011, e gli Stati Uniti come gran parte del mondo occidentale stavano affrontando le conseguenze di una grave crisi economica e finanziaria iniziata tre anni prima, che aveva messo in difficoltà milioni di famiglie e accentuato ulteriormente il divario tra le fasce povere della popolazione e i pochi, fortunati ricchi. Il governo stava spendendo centinaia di miliardi di dollari per salvare le banche dal fallimento ed evitare il collasso del sistema finanziario.

Il movimento criticava il sistema capitalista, la ricchezza dei grandi gruppi industriali e le enormi diseguaglianze presenti a ogni livello della società. Il loro motto era «Siamo il 99 per cento», uno slogan che faceva riferimento allo squilibrio presente nella distribuzione della ricchezza tra la maggior parte della popolazione appartenente alla classe bassa o medio-bassa e un’esigua minoranza molto ricca. L’1 per cento, appunto, che detiene gran parte della ricchezza del paese e la usa per condizionarne scelte politiche ed economiche, secondo il movimento.

A partire da metà settembre circa 200 manifestanti occuparono Zuccotti Park, un parco di 3mila metri quadri a Wall Street, il centro finanziario di Manhattan. La protesta durò fino al 15 novembre, quando la polizia sgomberò l’area e arrestò circa 200 persone. Durante l’occupazione ci furono molti scontri tra gli attivisti e l’amministrazione del sindaco Michael Bloomberg, un miliardario che al tempo era esponente del partito Repubblicano, ma dal 2018 passò al partito Democratico candidandosi anche alle primarie presidenziali del 2020, senza successo.

Ci furono vari episodi di violenza da parte della polizia, che usò contro manifestanti non pericolosi anche lo spray al peperoncino, molto irritante. L’occupazione di Zuccotti Park ispirò proteste in centinaia di altre città, negli Stati Uniti e all’estero.

Zuccotti Park dopo lo sgombero degli attivisti di Occupy Wall Street, nel 2011 (AP Photo/John Minchillo)

Occupy Wall Street non aveva una struttura di leadership ben definita. Al contrario, rimase un movimento spontaneo e apartitico, critico sia del partito Repubblicano che di quello Democratico, e si pose su posizioni che nello spettro politico nazionale starebbero a sinistra dei Democratici. L’iniziativa diede però enorme rilievo mediatico alle rivendicazioni anticapitaliste e ai movimenti per la democrazia, e contribuì ad avvicinare molti giovani al mondo della politica e dell’attivismo.

Negli anni successivi parte delle richieste di Occupy Wall Street fu ripresa e sostenuta da esponenti politici diventati noti in tutti il paese. Tra loro c’è Alexandria Ocasio-Cortez, che nel 2018 a 28 anni divenne la più giovane deputata mai eletta. Si candidò con i Democratici nel quattordicesimo distretto della città di New York, una zona multietnica che comprende parti del Bronx e del Queens. Sfidò alle primarie Joe Crowley, un Democratico di lungo corso che dal 1999 in poi era sempre stato rieletto ed era diventato una figura nota nell’establishment del partito.

Ocasio-Cortez lavorava come cameriera in un ristorante messicano: non aveva alcuna esperienza in politica, e quando annunciò la sua candidatura in pochi la presero sul serio. La sua campagna elettorale, raccontata anche dal documentario di Netflix Knock down the House, fu però molto partecipata, mentre Crowley non fece grandi sforzi per assicurarsi la rielezione, che era sicuro di ottenere. Il 26 giugno del 2018 Ocasio-Cortez venne eletta alla Camera con il 78,2 per cento dei voti, dopo aver sconfitto Crowley nelle primarie con un vantaggio di oltre quindici punti percentuali.

Fin da subito Ocasio-Cortez criticò alcune posizioni del partito Democratico – di cui comunque faceva e continua a fare parte – che considerava ormai superate e non sufficientemente attente ai bisogni di una società in continua trasformazione. Oggi fa parte di una sorta di “corrente” interna al partito, chiamata informalmente “The Squad” (la squadra), composta da cinque deputate e tre deputati con posizioni molto progressiste e in parziale disaccordo con il resto del partito su temi particolarmente divisivi come l’immigrazione, i diritti umani, il cambiamento climatico e il sistema sanitario.

Di recente il gruppo ha criticato il supporto quasi incondizionato offerto a Israele dal presidente Democratico Joe Biden in seguito all’inizio della guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, a ottobre del 2023. Lo scorso novembre 22 deputati Democratici votarono a favore di una mozione di censura promossa dai Repubblicani a carico di Rashida Tlaib, deputata del Michigan che fa parte della “Squad”, accusandola di aver sostenuto narrative false riguardo alla guerra in corso. Tra le altre cose, Tlaib aveva citato lo slogan “Dal fiume al mare”, che sostiene il diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato ed è considerato da alcuni osservatori come potenzialmente antisemita. Tlaib è la prima persona di origini palestinesi a essere eletta al Congresso.

– Leggi anche: Il controverso slogan «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»

Rashida Tlaib, Ayanna Pressley, Ilhan Omar e Alexandria Ocasio-Cortez al Congresso, nel 2019 (Alex Wroblewski/Getty Images)

Ocasio-Cortez ha sempre adottato un atteggiamento molto critico anche nei confronti di Joe Biden, tanto che alle elezioni primarie del 2020 sostenne la candidatura del suo avversario Bernie Sanders, un indipendente con idee socialiste (ci torneremo). A novembre del 2020, dopo la vittoria di Biden, Ocasio-Cortez criticò il partito sostenendo che non fosse in grado di affrontare in modo abbastanza deciso alcuni temi importanti, tra cui il razzismo: «Il problema è che le persone che prendono le decisioni più importanti nel partito hanno ormai preso una deriva anti attivista, e non vedono i benefici che questo [l’attivismo] potrebbe portare», disse al podcast The Daily del New York Times. Invitò anche l’establishment Democratico, rappresentato soprattutto da Biden, a smettere di vedere l’ala più progressista «come un nemico»: «Se continua a contrastare gli obiettivi sbagliati, il partito si sta solo costruendo la strada per la sua obsolescenza».

Sinistra non vuol dire solo partito Democratico, nemmeno nelle sue frange più progressiste. Esiste un ricco universo di candidati indipendenti o affiliati ad altri gruppi politici minori, che più volte hanno provato a candidarsi alle presidenziali, senza mai riuscire a vincere. Il più noto, almeno negli ultimi anni, è Bernie Sanders, un senatore del Vermont di 82 anni. Ufficialmente è indipendente, anche se è da sempre vicino ai Democratici e ha spesso partecipato alle iniziative elettorali del partito. Da decenni si descrive come un «socialista democratico»: in un discorso del 2015 spiegò che questo orientamento non ha nulla a che fare con la dottrina marxista né con la pretesa di abolire il capitalismo, ma è basato sulla creazione di una società più equa per tutti i suoi membri tramite alcune riforme, a partire dal salario minimo e dal miglioramento del sistema fiscale, sanitario e universitario.

Sanders è sempre stato attratto dagli ideali radicali: si avvicinò alla politica mentre studiava all’Università di Chicago, negli anni Sessanta, un periodo molto turbolento caratterizzato dalle proteste contro la guerra in Vietnam e dalla lotta per i diritti civili. Tra il 1981 e il 1989 fu sindaco di Burlington, la città più popolosa del Vermont, nel 1990 fu eletto alla Camera e nel 2006 al Senato, sempre da indipendente ma con il sostegno del partito Democratico.

Pur mantenendo posizioni indipendenti, nel 2016 si candidò per la prima volta alle primarie dei Democratici: perse contro Hillary Clinton, ma ottenne comunque più del 43 per cento dei voti, un ottimo risultato per un candidato considerato lontano dalle istituzioni del partito e di posizioni dichiaratamente vicine al socialismo, un termine che negli Stati Uniti è sempre stato visto con diffidenza. Si candidò nuovamente alle primarie nel 2020, sfidando Joe Biden, ma si fermò al 26,2 per cento dei voti.

Bernie Sanders a un evento elettorale nel 2020 (Drew Angerer/Getty Images)

Nelle due campagne elettorali per le primarie che organizzò in giro per il paese, Sanders si presentava come un candidato piuttosto improbabile: era un politico di lungo corso del Vermont, uno stato della costa est degli Stati Uniti grande come il Piemonte, era anziano, bianco e dal carattere burbero e scontroso. Le sue campagne però ebbero un enorme successo mediatico, i suoi comizi erano sempre affollati e Sanders riuscì ad attrarre i voti di molti elettori giovani e latinoamericani, che coniarono il motto «Feel the Bern», (“senti il Bern”, dal nome di Sanders). 

Nonostante le sconfitte, negli ultimi anni gli ideali di Sanders hanno implicitamente spinto il partito Democratico a spostarsi più a sinistra e hanno contribuito ad aprire la discussione su temi a lungo considerati troppo estremi. «Fino a poco tempo fa erano proposte considerate radicali e minoritarie, mentre oggi sono largamente condivise e alcune sono già in corso di adozione», disse Sanders nel 2020, riferendosi per esempio all’introduzione di un salario minimo da 15 dollari l’ora e alla transizione verso fonti di energia rinnovabili. «Il nostro movimento ha vinto la lotta ideologica».

Dichiararsi socialisti negli Stati Uniti non è mai stato facile, soprattutto se si decide di provare a vincere le elezioni. L’idea del socialismo come qualcosa di estraneo ai princìpi americani è ancora radicata in parte della società. Circa un secolo prima di Sanders ci aveva provato Eugene V. Debs, un importante sindacalista e tra i più noti esponenti del Partito Socialista d’America, che si dissolse ufficialmente nel 1972. Tra il 1904 e il 1920 Debs si candidò quattro volte alla presidenza, ottenendo al massimo il 6 per cento dei voti, nel 1912.

Era un periodo storico non facile per i socialisti. Nel 1917 gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale contro l’impero tedesco e austroungarico: i socialisti erano fortemente contrari alla guerra, e migliaia furono arrestati per aver criticato le decisioni del governo. Anche Debs fu condannato a dieci anni di carcere, ma non rinnegò mai le sue idee.

Eugene Debs

Il socialista Eugene Debs partecipa a un comizio a New York, nel 1912 (Keystone/Getty Images)

Il 1917 fu anche l’anno della Rivoluzione bolscevica con cui fu creata l’Unione Sovietica comunista. Negli Stati Uniti iniziò il primo “red scare”, la “paura rossa”, ossia l’opposizione e la repressione di qualsiasi ideale considerato vicino al comunismo o al socialismo, visti come teorie estranee e pericolose per gli ideali americani. Un secondo red scare, ancora più duro del primo, si verificò nella seconda metà del Novecento. Era il periodo della Guerra fredda, caratterizzato da un’intensa competizione tra le due superpotenze del tempo: gli Stati Uniti, capitalisti, e l’Unione Sovietica, comunista. Negli Stati Uniti il socialismo e gli ideali di sinistra vennero nuovamente associati con il nemico, i loro sostenitori furono considerati come potenziali minacce alla sicurezza nazionale e quindi arrestati e perseguitati.

Oltre a Sanders, nello scenario politico statunitense ci sono altri candidati indipendenti che si pongono a sinistra del partito Democratico e partecipano attivamente alle elezioni. Jill Stein nel 2024 si è candidata per la terza volta alle elezioni presidenziali con il partito dei Verdi, fondato ufficialmente nel 2001 ma presente in altre forme fin dagli anni Ottanta.

A differenza di Sanders, Stein si è sempre posta in netta contrapposizione sia con il partito Repubblicano che con quello Democratico: «Il sistema politico non funziona, abbiamo bisogno di un partito che ascolti le persone», ha detto nel discorso con cui annunciò la sua ultima candidatura. «I due partiti principali che ci hanno messo in questo pasticcio non ce ne tireranno fuori». Nel 2012 Stein ottenne lo 0,4 per cento dei voti, e nel 2016 poco più dell’1 per cento.

Al di là dei candidati e dei partiti politici, sulla scia di Occupy Wall Street negli ultimi anni sono nati diversi movimenti apartitici che sostengono cause storicamente vicine alla sinistra. Nell’estate del 2020 migliaia di persone si riunirono nelle strade di tutto il paese per protestare contro la morte di George Floyd, un uomo afroamericano ucciso il 25 maggio a Minneapolis, in Minnesota, mentre veniva arrestato dalla polizia, che operò in modo molto violento. Le manifestazioni ridiedero slancio al movimento Black Lives Matter, nato nel 2013 per combattere le discriminazioni e l’ingiustizia razziale, e che oggi è sia lo slogan di battaglie antirazziste molto condivise, sia un’organizzazione più radicale con proposte distanti da quelle del partito Democratico.

Le proteste del 2020 furono un evento enorme: il 6 giugno mezzo milione di persone partecipò agli eventi in oltre 500 città in tutti gli Stati Uniti. Contribuirono a riportare il problema del razzismo al centro del dibattito pubblico e modificarono in parte la discussione politica in un momento molto delicato, durante la campagna elettorale per le presidenziali (poi vinte da Biden) e la pandemia di Covid-19. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, Biden diffuse uno spot che iniziava con la frase: «Black lives matter, period», ossia «Le vite dei neri contano, punto». A maggio del 2021, dopo essere stato eletto, Biden incontrò la famiglia di Floyd alla Casa Bianca.

Cartelli del movimento Black Lives Matter durante una manifestazione a Washington, nel 2020 (Samuel Corum/Getty Images)

L’omicidio di Floyd diede nuovo slancio anche a una proposta nota come Defund the police, “definanziare la polizia”: critica gli abusi delle forze dell’ordine contro i cittadini e chiede di ridurre i fondi a loro disposizione per dedicarli ad altri settori considerati più utili per la società, come la scuola o la sanità. È un movimento strettamente legato a Black Lives Matter e alle rivendicazioni per la giustizia razziale.

Dopo l’omicidio di Floyd la richiesta Defund the police ebbe attenzioni ma soprattutto critiche, più di tre anni dopo le sue rivendicazioni non hanno avuto effetti concreti e le città che provarono a modificare i finanziamenti a disposizione delle forze dell’ordine dovettero presto ripensarci. Il partito Repubblicano criticò molto le richieste del movimento, che diventarono un argomento per accusare i Democratici di non essere abbastanza severi nella repressione del crimine e di non sapere quindi mantenere la sicurezza pubblica. Gli stessi principali esponenti del partito, tra cui il presidente Biden, si dissero contrari.