Come ha fatto l’economia russa a resistere?

Dopo due anni di guerra non è crollata come ci si aspettava e anzi è cresciuta un po': c'entrano l'inefficacia delle sanzioni, e l'aiuto della Cina

Vladimir Putin
Vladimir Putin (Alexander Kazakov, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
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Poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina, due anni fa, il Fondo Monetario Internazionale aveva previsto che il Prodotto Interno Lordo della Russia si sarebbe ridotto di un decimo entro il 2023 a causa delle sanzioni occidentali e delle conseguenze della guerra in Ucraina. Non è successo, e anzi nelle ultime previsioni, a ottobre 2023, ha stimato che il PIL russo è invece cresciuto nel 2023: era calato del 2,1 per cento nel 2022 rispetto all’anno precedente, ma nel 2023 è nuovamente salito del 2,2, tornando così ai livelli del 2021.

L’economia russa nel suo complesso è stata molto più resistente alla guerra, anche se rimangono vari problemi: per esempio non è mai riuscita a rimpiazzare del tutto l’Unione Europea come principale acquirente di gas, perdendo così una grossa parte di entrate per finanziare la guerra; la valuta locale, il rublo, vale meno rispetto a un tempo, anche se oggi ha recuperato in buona parte i crolli dei primi mesi di guerra; il sistema industriale, benché stia producendo tantissimo, è stato in larga parte convertito alle produzioni belliche, e molti lavoratori hanno dovuto sostanzialmente cambiare mestiere; i russi hanno dovuto imparare a fare a meno di molti prodotti dei marchi occidentali che si sono ritirati dal paese e anche gli oligarchi hanno dovuto dimenticarsi lo stile di vita e le ambizioni di prima della guerra.

È però un fatto che l’economia russa si è rivelata più resiliente del previsto, soprattutto nei confronti delle sanzioni imposte dall’Occidente: da febbraio del 2022 gli Stati Uniti, l’Unione Europea e i loro alleati hanno adottato sanzioni contro migliaia di oligarchi russi, hanno cercato in vari modi di far smettere il paese di guadagnare dal petrolio e dal gas, hanno vietato l’esportazione di prodotti tecnologici sensibili nel paese, hanno congelato le riserve all’estero della banca centrale russa e tagliato fuori diverse banche russe dal sistema finanziario globale. Le ultime sanzioni sono state imposte venerdì, sia da Stati Uniti che dall’Unione Europea, in risposta alla morte del leader dell’opposizione russa Alexei Navalny, per la quale è ritenuto responsabile il regime russo di Vladimir Putin.

In linea teorica le sanzioni sono uno strumento potente e molto efficace: cercano di sfruttare l’influenza dell’Occidente sul commercio e sulla finanza globali per impedire alla Russia di ottenere la tecnologia e le risorse economiche necessarie alla guerra. Allo stesso tempo sono un modo per i governi occidentali di dimostrare il loro appoggio all’Ucraina anche in un momento dove a livello politico è diventato difficile giustificare gli assai costosi aiuti militari e umanitari, sia negli Stati Uniti che in Unione Europea.

Sul piano pratico però l’efficacia delle sanzioni come strumento di politica estera è un tema molto dibattuto, ormai da anni, da economisti ed esperti di politica internazionale: negli anni l’Occidente ne ha di fatto abusato, soprattutto gli Stati Uniti, e benché rispetto al passato le sanzioni siano più mirate è molto difficile per chi le impone controllarne l’effettiva attuazione. Per esempio se si impone il divieto all’esportazione di un particolare tipo di chip verso la Russia, bisogna anche assicurare i controlli doganali, nei porti e nelle stazioni di interscambio merci. Non tutti i paesi hanno le risorse e la volontà politica per farlo.

In più la Russia è riuscita ad aggirarle grazie all’appoggio di vari alleati, come Cina, India e Turchia, che hanno mantenuto intatti i loro rapporti commerciali e finanziari verso il paese, nonostante le pressioni internazionali.

Il sostegno della Cina è stato fondamentale anche per sostituire le merci e i beni occidentali che si erano ritirati dal mercato russo dopo l’invasione: all’inizio dell’invasione, per esempio, le automobili di produzione cinese costituivano soltanto il 10 per cento del mercato russo, che era ancora dominato dai grandi marchi europei. Oggi le auto cinesi sono il 55 per cento del totale.

Un altro caso piuttosto eclatante riguarda il commercio di petrolio. Nel 2022 circa il 60 per cento del petrolio proveniente dalla Russia occidentale era stato trasportato in petroliere europee. Alla fine dell’anno i paesi del G7 hanno imposto un tetto massimo di prezzo, che ha vietato ai loro vettori di spedire petrolio russo a meno che non fosse venduto a meno di 60 dollari al barile. In risposta è cresciuto un sistema parallelo che riesce a trasportare gran parte del petrolio russo a un prezzo più alto, grazie alla complicità di altri paesi, come la Cina e l’India, che lo importano e poi lo rivendono, nascondendone le origini russe.

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Anche altri flussi commerciali si sono adattati. I paesi occidentali aggiungono continuamente aziende e individui russi alle loro black list, ma passando fittiziamente per altri stati questi riescono ancora a fare comunque affari con l’Occidente. E questo riguarda anche i divieti di esportazione di materiale sensibile: anche se ufficialmente le esportazioni dall’Unione Europea verso la Russia sono diminuite parecchio, ci sono alcuni flussi commerciali curiosi con l’Armenia, il Kazakistan e il Kirghizistan, che hanno iniziato a importare di più dall’Europa e sono misteriosamente diventati importanti fornitori di beni per la Russia.

Di recente, oltretutto, la Commissione Europea ha mandato una lettera ai paesi membri in cui lascia intendere che molte aziende europee continuano a vendere merce proibita alla Russia, tra cui proprio forniture tecnologiche o militari che la Russia usa sul campo di battaglia contro l’esercito ucraino.

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